Adolescence. Il male che (non) vediamo

Adolescence. Il male che (non) vediamo

A me sembra che ci sia un rumore quasi impercettibile, dentro “Adolescence”, un rumore normale, direi un rumore famigliare, proprio nel senso di famiglia, e per questo disturbante, ché Gide lo diceva che le famiglie fanno schifo: «famiglie, vi odio! Amo chi cerca il vero», diceva. Forse è il rumore posato e pregato del nostro male quotidiano, quel male che si (e)stende nelle nostre giornate, nei momenti che non ricordiamo, un male attraverso cui “Adolescence” non solo ci guarda ma ci costringe a guardare.

Quattro episodi, quattro piani sequenza. Una scelta formale che per alcunǝ è un mero virtuosismo tecnico, forse persino un esercizio di stile, ma che a me non pare mai, ma proprio mai, tale. Quei quattro piano sequenza a me sembrano invece una scelta estetica che diviene etica, sono un dispositivo di sostanza che si fa tramite di significato.

Perché in quei lunghi, ininterrotti, inesausti sguardi sulla vita dei Miller – una famiglia spezzata, un sistema che fallisce, una società che preferisce non vedere – non c’è scampo per lo spettatore, non c’è il sollievo del taglio, non c’è la consolazione della dissolvenza, non c’è una via di fuga, c’è solo l’immersione forzata, spietata, obbligata nel flusso della vita, del quotidiano, di ciò che di solito è narrativamente invisibile, perché il male – rivoltante, inaccettabile – non è altrove ma anzi pulsa e germina proprio lì, nella normalità (più o meno) borghese che tuttǝ conosciamo, nel consueto, in ciò a cui non facciamo neanche caso, come fosse automatico.

Anche in questo senso io credo che “Adolescence” non sia solo una serie su un omicidio. È una serie sulla famiglia, sulla società, sui ruoli predefiniti che schiacciano, sugli stereotipi che soffocano. È una serie su come il patriarcato – e il suo corollario di violenza di genere – abbia impregnato la normalità dei rapporti, tanto che non lo vediamo più, come non vediamo l’aria che respiriamo, come non lo sentiamo nel rumore impercettibile che avvolge le nostre esistenze, perché c’è sempre e c’è sempre stato e, nonostante i nostri sforzi, (non) lo sentono tuttǝ, anche i bambini di 13 anni.

Il piano sequenza diventa allora la grammatica perfetta per raccontare questa invisibilità. Perché è proprio l’assenza di tagli che esaspera la continuità del male, la sua presenza costante ma inavvertita. La violenza, in ogni sua forma, è la regola nascosta dentro la quotidianità. È quella modalità di esistenza in cui il padre (uno straordinario Stephen Graham, per inciso) crede di sapere, ma non sa; crede di vedere, ma non vede; crede di capire, ma non capisce.

Un grammatica che ci mostra come il male non abbia bisogno di manifestazioni eclatanti per esistere, come invece si insinui nelle abitudini, nelle frasi fatte, nei ruoli familiari che nessuno mette in discussione. Come si nasconda dietro l’apparenza di una normalità che è essa stessa il problema. Una quotidianità non interrogata, lasciata scivolare, in cui l’assenza della vittima, Katie, potrebbe sembrare – e per molti aspetti di sicuro è – una ulteriore mancanza. Eppure io credo sia una scelta consapevole. Perché “Adolescence” forse ci vuole dire e (di)mostrare che il focus deve essere la decolonizzazione dei maschi dalla cultura del patriarcato. La vittima non c’è perché lo sguardo è tutto su chi perpetua la violenza, su chi la normalizza, su chi la ignora. In un certo senso, su tutti noi, TUTTI, maschile plurale.

Certo, poi ci sono i social, la permeabilità tra online offline, i vocabolari diversi, i respiri di Jamie che diventano, rumore udibile, il ritmo stesso di un episodio in cui il mondo è evidentemente un posto sbagliato. Ma soprattutto “Adolescence” non consola, non ci dice che il male è un’anomalia, una devianza. Ci dice invece che la violenza di genere è la regola: il male ripugnante che racconta è nel quotidiano, nelle piccole cose, nelle pause, quando sembra non accadere nulla, in quei momenti tanto usuali quanto indiscussi. È la tragedia di un’intera cultura cresciuta male e che non sa più come crescere i suoi figli, che ha delegato la loro educazione sentimentale agli algoritmi, che ha smesso di parlare loro davvero.

I quattro piani sequenza ci costringono a guardare una realtà che preferiremmo ignorare, ci fanno sentire il peso di ogni minuto, l’irreversibilità di ogni gesto, la responsabilità di ogni silenzio. Perché è una realtà – non uno specchio – così devastante, e soprattutto così prossima, che non ne sentiamo più il rumore. Forse la macchina da presa che non stacca mai è quello stesso sguardo che non dovrebbe mai distogliersi, è l’attenzione che non dovrebbe mai vacillare, è la responsabilità che non dovrebbe mai essere delegata. È un modo per dire che esiste una continuità irreversibile nel male, che non ci sono stacchi nella violenza strutturale, che il patriarcato non è un incidente di percorso ma un sistema coerente, un flusso ininterrotto di microaggressioni, di stereotipi, di aspettative tossiche che si depositano strato dopo strato fino a soffocare. E che è anche l’ineluttabilità della violenza, se si smette colpevolmente di assumersi la responsabilità morale del proprio guardare.

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