Il cinema del controllo
Un viaggio tra utopie, distopie e paranoie sociali
Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato. (George Orwell, 1984)
Se bastassero poche parole a contenere “Brazil” sarebbero certamente quelle di Orwell. Ma un’unica breve sentenza, per quanto tagliente, non può comprimere tutto l’incubo burocrate e paranoico di Terry Gilliam.
“Brazil” (1985) è il capolavoro di Terry Gilliam. È la sua allucinazione. Il suo sogno. Il suo mostro.
Mentre il regista camminava su una spiaggia color catrame del Galles, presso la cittadina post industriale di Port Talbot, fu raggiunto da ritmi caraibici provenienti da una radiolina che suonava nei paraggi. Il contrasto tra la musica esotica e il deserto nero che gli scorreva sotto i piedi gli suggerì il desiderio di una precipitosa partenza, di un improvviso desiderio di abbandono di quel luogo opprimente. È così che l’idea del film si fa spazio nella mente del talentuoso e visionario Gilliam.
Il protagonista Sam Lowry vive in un mondo dominato da un sistema burocratico opprimente, dove la realtà si confonde con le illusioni e la libertà individuale è schiacciata dalla macchina statale. Gilliam crea un’estetica caotica e surreale, che riflette l’assurdità di un controllo totalitario che si insinua nelle pieghe più intime dell’esistenza.
L’atmosfera surreale investe ogni inquadratura di Brazil: gli smisurati corridoi del Palazzo del Ministero, gli ambienti sovraccarichi di condutture e tubi che invadono l’inquadratura come arterie, cavi come viscere e televisioni come specchi, la violenza fascista della polizia, le torture, il controllo dell’informazione e l’esasperazione della burocrazia, i corpi ridotti a nefasti esiti di chirurgia estetica sperimentale.
Il film anticipa molte delle degenerazioni di una società proiettata verso se stessa, come la perdita di valori morali e culturali, e la manipolazione dell’informazione, richiamando anche il “cannibalismo della società dei consumi” di Pasolini, che denuncia come il consumismo e l’egocentrismo distruggano le radici profonde della società, portando a un mondo sempre più vuoto e disumanizzato.
Il finale, imposto in modo imperativo alla produzione, si configura ancora una volta come un sigillo di autentica firma artistica di Gilliam. È attraverso la morte che si consacra il trionfo del suo sogno visionario: un’immaginazione audace che si erge a baluardo contro il linguaggio corrotto dei regimi totalitari, contro le mistificazioni storiche e la perdita di coscienza collettiva. Se, come profetizzava Orwell, “la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, allora dobbiamo ricordare che la memoria conserva ancora un futuro, almeno nei nostri sogni più profondi.
Che la fantasia sfrenata possa rappresentare uno spiraglio di fuga dalla dittatura del pensiero unico non è cosa certa, ma senza dubbio la realtà si trovi intrappolata in labirinti senza via d’uscita, dove il controllo esercitato si espande senza limiti.
Questo scenario appare evidente nel cinema di Alex Garland: nelle sue opere il confine tra uomo e macchina si fa permeabile, e sistemi di controllo, sorveglianza e manipolazione vengono perpetrati sistematicamente ai danni delle nostre menti. Garland ci proietta in un futuro in cui il potere si concentra nelle mani di pochi eletti, mentre la tecnologia diventa uno strumento di dominio totale, sollevando profonde questioni etiche e filosofiche sulla libertà e sull’autonomia individuale.
Lo sguardo di Alex Garland sembra essere irresistibilmente attratto dall’affermazione di Cocteau “il cinema è la morte al lavoro”. I suoi protagonisti sono astanti ignari di una morte imminente che è pronta ad accoglierli: anti-eroi per i quali il destino è già stato scritto, Icaro moderni che desiderano superare (“Non Lasciarmi”, “Ex-Machina”) e conoscere (“Annientamento”) i segreti della vita ma che abbandoneranno le proprie ali sulla soglia dell’imperscrutabile.
In Garland, si nota frequentemente l’uso di superfici trasparenti come bicchieri, finestre, vetrate e schermi, che fungono da simboli del doppio e del riflesso distorto e imperfetto degli esseri umani, destinati a perdere la memoria e la propria identità. Queste superfici agiscono come barriere e interferenze che ostacolano la ricerca della verità. Essendo mezzi di rarefazione della vista, nel momento in cui mostrano un corpo, non ne rivelano mai l’immagine perfetta, ma piuttosto una duplicazione ricca di significati nascosti.
Significati distorti e valori deformati sono gli elementi portanti anche dell’estetica del controllo di Yorgos Lanthimos.
Il regista greco porta sullo schermo un’estetica minimalista e spesso disturbante, che mette in discussione le norme sociali e le dinamiche di potere. La sua rappresentazione del controllo si manifesta attraverso rituali, regole sociali e convenzioni che diventano strumenti di oppressione sottile ma efficace. La sua estetica distillata e spesso asettica sottolinea come il controllo possa essere esercitato anche senza violenza aperta, penetrando nelle relazioni più intime.
Il cinema di Lanthimos è costruito, e poi smembrato, in corpi, solitudini e coercizioni.
“Doogtooh” (2009) è una gabbia familiare in cui una coppia di borghesi benestanti vive con i tre figli adolescenti. I ragazzi passano il tempo ad inventarsi giochi di sopravvivenza tra la superficie riflettente di una piscina, una pedana per esercizi ginnici al centro del giardino e le asettiche stanze della villa, bloccati in scene che sembrano ispirate dagli scatti di Elina Brotherus.
Immagini di stanze come recinti e corpi nudi come oggetti inanimati, solitudini e superfici, vita e inerzia. Non sono le parole a dare senso a ciò che stiamo guardando, le parole ingannano. È l’occhio a guidare la nostra attribuzione di significati.
Il regista greco ci presenta un microcosmo domestico in cui il padre di famiglia, per proteggere moglie e figli dai pericoli dell’ambiente esterno mette in atto un controllo totale sulle loro menti. Questa manipolazione dà vita a un immaginario distorto e morboso, privo di qualsiasi traccia di affettività autentica. Instillando nel nucleo familiare una paura totale e assoluta verso tutto ciò che è diverso, il padre si impadronisce delle loro menti, rendendole malate, disfunzionali e inadatte alla vita reale.
Il mondo di Lanthimos è feroce e grottesco. I personaggi sono spesso privi di identità, talvolta addirittura senza nome, vittime dell’ossessione di controllo esercitata da altri. Sono figure autodistruttive e solitarie, spesso tagliate fuori dall’inquadratura stessa, con la testa che viene eliminata dall’immagine, simbolo della loro invisibilità e marginalità. Anche il linguaggio assume un ruolo fondamentale: non più soltanto come mezzo di comunicazione, ma come strumento di controllo e limitazione, un’arma potente nelle mani di chi detiene il potere.
In “Dogtooth” la famiglia diventa un’unità di controllo e di segregazione. Se, grazie alle riflessioni di Cooper e Foucault, sappiamo che la famiglia può rappresentare uno dei luoghi di concentrazione e ramificazione di un potere che si esercita direttamente sui corpi attraverso meccanismi disciplinari, nel film di Lanthimos questa stessa famiglia sembra alludere a una più vasta struttura sociale. È per questo motivo che, oltre a evocare qualsiasi forma di dittatura – e in particolare quella dei colonnelli, dato che l’ambientazione è greca – la condizione dei figli rinchiusi nella villa può essere letta come una metafora della condizione degli individui contemporanei, soggetti alla digitalizzazione diffusa, ai social network e all’iperproduzione di informazioni.
I sistemi di controllo sono oggetto di chirurgica osservazione anche in “The Lobster” (2015). Nel film, Colin Farrell si trova a vivere in un hotel dedicato ai single, un luogo in cui gli individui sono rinchiusi e costretti a trovare un compagno entro quarantacinque giorni; in caso contrario, sono condannati a trasformarsi in animali e a essere soppressi. In contrasto, nel cuore del bosco si erge un fronte ribelle di solitari, anch’essi soggetti a una severa legge: l’impossibilità di trovare un partner sotto pena di morte.
Le due istituzioni rappresentano due facce di uno stesso sistema di controllo: i corpi vengono arruolati e addestrati secondo pratiche singolari, spesso violente, asettiche e prive di umanità. Ritualmente accompagnati dalle punizioni che incarnano la materializzazione concreta del potere e della sorveglianza, essi sono orientati a risolvere il proprio vuoto esistenziale e la propria devianza prima che il tempo scada. In questa logica, la disciplina diventa una forma di comfort forzato, un meccanismo per contenere l’insicurezza e la diversità all’interno di confini rigidamente stabiliti.
Nel perverso gioco in cui i single sono condannati a rispettare una scadenza temporale per trovare un partner, mentre i solitari sono sottoposti a un divieto assoluto di farlo, si delinea una descrizione iperbolica e ossimorica della società che Lanthimos intende smascherare, analizzare e denunciare. Siamo esseri sociali, creature illuse e imperfette, che fondano il proprio senso di superiorità sul mondo sulla capacità dialettica e sulla gestione della riproduzione. Ad alimentare questo meccanismo coercitivo è l’essere umano stesso. Non è più necessaria una struttura fisica oppressiva per imporre la conformità ai modelli seriali: sono le persone, con i loro sguardi giudicanti e le parole cariche di condanna, a divenire la macchina di controllo più potente e insidiosa possibile.
Da Gilliam a Lanthimos, passando per Garland, il cinema ci invita a riflettere su come il controllo si manifesti nelle società moderne e su come le immagini e le estetiche adottate possano aiutarci a coglierne le sfumature più oscure. Questi film ci rammentano che il controllo non si limita a essere un atto di oppressione manifesta, ma spesso si insinua nelle pieghe più sottili della vita quotidiana, influenzando le nostre scelte, le relazioni interpersonali e la percezione stessa del mondo.