L’ECO DELL’APOCALISSE

L’ECO DELL’APOCALISSE

Cronache dalla fine permanente

Io non l’ho ancora visto, ma so che c’è un momento, in The End di Joshua Oppenheimer, in cui il figlio — cresciuto in un bunker iper-tecnologico dopo la fine del mondo — mette in scena per l’ennesima volta il passato dell’umanità in forma di musical. Non l’ho ancora visto e lo vedrò, ma intanto quello che ci interessa, in questi due mesi di BILLY che ci attendono, non è tanto il film in sé — arriverà, appunto, lo vedremo, ne parleremo — quanto la vertigine dell’idea di un musical post-apocalittico, di una famiglia che rappresenta a se stessa, cantando, un’umanità morta.

E, non so perché ma, mentre lo immagino, vedo i corridoi vuoti dei centri commerciali alle otto di sera, i neon dei parcheggi multipiano, le notifiche non lette del telefono, e sento che quelle sono le immagini dell’apocalisse che abbiamo smesso di notare perché fanno parte di noi, qui, ora, mentre attraversiamo le nostre giornate credendo di vivere prima della fine quando invece la fine è già e ancora qui.

Perché l’apocalisse — e Oppenheimer lo sa bene, dopo aver passato dieci anni a riflettere sui carnefici — non è un evento che irrompe: è una condizione che si installa, si sedimenta, strato dopo strato, è polvere sui mobili. È un abitare prolungato nella dismissione del mondo, una domesticità della catastrofe che si accasa nelle normalità. Non è la deflagrazione spettacolare ma l’erosione silenziosa, non è il crollo improvviso ma è il cedimento strutturale che si protrae, si dilata, diventa paesaggio, e allora è il dopo che diventa durante, è la conclusione che si fa permanenza, in routine o in colonna sonora.

Il musical, ecco, appare come la forma più spudoratamente onesta per raccontare questa condizione. È la verità stessa del nostro presente: cantiamo e balliamo sulla nostra rovina, convertiamo il collasso in spettacolo, la catastrofe in contenuto. Forse perché abbiamo bisogno di una coreografia dell’ordinario mentre intorno a noi il tessuto del reale si sfilaccia, di mettere in scena, con filtri e hashtag, la nostra personale versione del mondo che finisce, con copioni di normalità mentre il pianeta collassa sotto i passi danzanti dei miti di progresso, mentre le democrazie implodono, mentre tutto scivola verso qualcosa che non ha più nome, o almeno io non riesco a darglielo.

C’è una violenza sottile in questa messinscena quotidiana, un conflitto non dichiarato tra ciò che sappiamo e ciò che fingiamo di non sapere. Ci annidiamo in città che sono già rovine mascherate, frequentiamo e abitiamo luoghi che sono bunker camuffati da spazi di socialità, ci muoviamo in geografie che hanno già subito la loro piccola apocalisse, e intanto continuiamo a cantare, letteralmente e metaforicamente, le canzoni di prima, le canzoni di un mondo morto, come ad assecondare un potere che ci vuole allegri («ché il nostro piangere fa male al re»).

L’intuizione di Oppenheimer — immaginare sopravvissuti che trasformano la memoria in spettacolo — allaga territori che vanno ben oltre la finzione. Sembra dirci, Oppenheimer, che siamo tuttǝ sopravvissutǝ che abitano le macerie fingendo siano case, che attraversano deserti chiamandoli città, che respirano veleno raccontandosi che sia aria. E per sopportare questa condizione, per renderla vivibile, la trasformiamo in narrazione, in contenuto, in esperienza estetica. Questo sembra dirci il cinema contemporaneo.

Perciò per alcunǝ il bunker contemporaneo è fatto di algoritmi che ci proteggono dal confronto con l’alterità, di bolle informative che ci schermano dalla complessità, di routine che anestetizzano la percezione della deriva. Zaha Hadid disegnava architetture che sembravano astronavi atterrate da un futuro impossibile, ma forse aveva solo sentito che stavamo già costruendo rifugi, fortezze mascherate da luoghi di consumo e svago. Presidiamo distretti invisibili, cittadelle della negazione dove la fine del mondo è sempre altrove — negli incendi californiani che guardiamo in streaming, nei ghiacciai che collassano in video accelerati, nelle guerre che scorrono nel feed tra una pubblicità e un meme, e sia detto senza colpevolizzazione alcuna.

Anche perché c’è qualcosa di più inquietante ancora. Qualcosa che il musical post-apocalittico, nella sua apparente assurdità, rivela con precisione chirurgica: abbiamo trasformato la fine stessa in genere, in categoria merceologica, in esperienza di consumo, mortificando il lutto in spettacolo, la perdita in performance. C’è un’intera economia dell’apocalisse che ci permette di metabolizzare la catastrofe, trasformandola in intrattenimento. Come se nominandola, rappresentandola, cantandola, potessimo addomesticarla.

Eppure l’apocalisse vera — quella che è già qui, fuori e dentro di noi, e che stiamo attraversando come eterno presente post-traumatico — non sembra assomigliare a nessuna di quelle che abbiamo immaginato. Non ha la spettacolarità del fungo atomico né la drammaticità dello tsunami. È lenta, molecolare, si insinua nelle fibre del giorno, nel fatto stesso che possiamo ancora parlarne come se fosse futura.

L’estate di BILLY, che si apre in questo giugno indecifrabile, proverà a mappare questa geografia della fine permanente. Dalle visioni distopiche che sono ormai cronache del presente alle famiglie che abitano le macerie dei legami, dai bunker reali e metaforici alle musiche che accompagnano il disastro (e il futuro non è sempre lì a sorriderci, per parafrasare — anche se non mi sarebbe consentito — Vasco Brondi), cercheremo di attraversare questo paesaggio post-tutto senza la consolazione della distanza critica. Perché sembra non esserci più una distanza, un fuori da cui guardare un interno.

Forse per questo abbiamo bisogno del cinema. Non per immaginare futuri possibili — quella stagione è finita — ma per riconoscere il presente impossibile che stiamo abitando. Film come The End allora non sono profezie ma diagnosi, non anticipazioni ma radiografie di ciò che già siamo, mentre raffiguriamo il passato perché il presente è diventato irrappresentabile.

Perché se c’è una cosa che il cinema ci insegna — da Children of Men a Melancholia, da The Road a It Comes at Night — è che l’apocalisse non è mai dove ce l’aspettiamo. Non è nel meteorite che si schianta o nel virus che dilaga, ma piuttosto nel modo in cui continuiamo a vivere dopo, nel modo in cui normalizziamo l’impensabile, nel modo in cui cantiamo mentre il mondo brucia, appunto. 

L’apocalisse come evento appartiene ancora all’ordine del narrabile. L’apocalisse come condizione, come stato permanente dell’essere, sfida ogni rappresentazione. Per questo forse ci vuole un musical, con la sua logica impossibile, la sua artificialità dichiarata, la sua capacità di trasformare l’insostenibile in canzone. Per questo forse ci vuole il cinema, ultima soglia prima del silenzio, ultimo specchio prima del buio.

E allora noi di BILLY continueremo a guardare, a scrivere, a cercare le parole per dire ciò che non ha più parole. Perché se l’apocalisse è già qui, se la stiamo dicendo senza saperla nominare, allora forse il cinema può ancora servire a qualcosa: non a salvarci — sarebbe troppo — ma almeno a farci vedere dove siamo.

E siamo in fondo, nel bunker della famiglia di Oppenheimer; perché, alla fine, probabilmente, siamo noi l’Apocalisse.

logo

Related posts

Speciale Berlino: Orso d’Argento a Paul Thomas Anderson

Speciale Berlino: Orso d'Argento a Paul Thomas Anderson

Quando nel 2008 There will be blood (da noi Il Petroliere) vince l’Orso d’Argento per la miglior regia a Berlino, il film è uscito nelle sale statunitensi già da dicembre del 2007, con una prima proiezione di fine settembre al Filmfestival di Austin, in Texas. Alla competizione della Berlinale...

Tornare a vedere: Avatar 3D di James Cameron, tredici anni dopo in sala.

Tornare a vedere: Avatar 3D di James Cameron, tredici anni dopo in sala.

Qualche giorno dopo essere tornato in sala a rivedere Avatar in 3D mi è capitato di trovarmi in sala a rivedere un’altro film ben diverso, più “vecchio” di quello di James Cameron di almeno una decina di anni e mi riferisco a eXistenZ di David Cronenberg, proiettato alla Cineteca di Bologna in...

La caduta (?) dei giganti – Succession e Silvio Berlusconi

La caduta (?) dei giganti - Succession e Silvio Berlusconi

Dopo Ted Lasso e La fantastica signora Maisel anche un’altra serie che ci ha accompagnato in questi ultimi anni è giunta alla conclusione con la sua ultima stagione, stiamo parlando di Succession (ideata da HBO), che vede protagonista il magnate Logan Roy (Brian Cox) e i suoi tre figli Ken...