Distopie e famiglie dopo la catastrofe
Un barlume di speranza nell’apocalisse del nostro individualismo
Che definizione dareste alla parola Famiglia? A prima vista sembrerebbe una domanda semplice e intuitiva, una di quelle basilari della vita e della società umana. A ben pensarci, però, questo sarebbe stato vero forse qualche centinaio di anni fa. Oggi, almeno per me, è la domanda da un milione di euro.
Per rispondere allora mi sono fatta aiutare dai professionisti. «Insieme di persone unite da un rapporto di parentela o affinità; spec., il nucleo formato dal padre, dalla madre e dai figli, che costituisce l’istituzione sociale di base della società.»: è questa la prima definizione che ne dà il dizionario De Mauro, ripreso da Internazionale. Bisogna arrivare alla definizione numero 4 per leggere che la famiglia è anche «insieme di persone legate da un generico vincolo comune, anche ideale». Insomma, niente bisogno di matrimoni o consanguineità.
Dovrebbe bastare il numero di definizioni presenti su ogni dizionario per capire che no, definire la famiglia non è un’impresa semplice. E tantomeno lo è raccontarla. Ciò non toglie però che proviamo a farlo comunque, continuamente. Proviamo a definirla (tentando il più possibile di non limitarla) e a raccontarla in base alle definizioni che ne diamo. E per raccontare le dinamiche di nuclei familiari più o meno convenzionali, l’audiovisivo viene spesso in nostro soccorso.
Tra i generi che portano sugli schermi la famiglia spicca decisamente quello drammatico apocalittico e post-apocalittico.
Pensateci un po’: nel meraviglioso mondo dell’audiovisivo, quante volte vi è capitato di avere a che fare con film e serie squisitamente individualisti? La risposta ve la do io: poche. Pochissime. E anche in questi pochissimi casi – vedi per esempio Cast Away o per entrare già nel genere Io sono Leggenda, i personaggi una sorta di famiglia, o per lo meno una compagnia, la cercano ugualmente. È fisiologico, è quanto di più umano esista.
Se il genere apocalittico e post-apocalittico rappresenta l’attualità contemporanea attraverso sue possibili – realistiche o meno – degenerazioni, le famiglie che nell’apocalisse vengono costruite e raccontate rappresentano rapporti attuali, veri, concreti e reali. Rapporti che vogliamo, rapporti di cui abbiamo bisogno.
Possiamo a grandi linee suddividere le famiglie dopo la catastrofe in due macro-categorie.
Da una parte abbiamo le famiglie preesistenti, quelle nate e cresciute in un mondo ancora “normale” e che di questa normalità si fanno i più alti rappresentanti. Sono la prova provata che qualcosa di bello prima c’era, quella di cui c’è bisogno quando la speranza viene meno e si comincia a pensare che il mondo di prima non sia mai esistito, sia stato solo una sorta di lungo sogno a occhi aperti. Nel contesto del più profondo terrore, della paura di non farcela, i legami familiari sono quelli che mantengono saldi i nervi dei protagonisti e che li spingono a non mollare, ad andare avanti, a continuare a sperare in un futuro possibile e possibilmente migliore.
Pensiamo per esempio alla saga di A Quiet Place. I protagonisti in questione non vogliono preservare l’umanità, cercare cure sperimentali incredibili o zone militarizzate nelle quali costruire una nuova società: vogliono preservare se stessi, il loro status quo di famiglia – in parte – sopravvissuta. Vogliono e hanno bisogno di continuare a vivere insieme, perché la possibilità di sostenere e salvare chi li circonda e li ama è tutto ciò che resta loro. Perché se non restano in piedi gli uni per gli altri, allora che senso ha?
Dall’altra parte nella suddivisione della famiglia apocalittica c’è invece la famiglia di costruzione postuma.
È una famiglia fatta di legami meno legali e ufficiali, ma di certo non meno forti rispetto a quelli sui quali si basa la famiglia raccontata poco fa. È un nucleo fatto di sopravvissuti nel vero senso della parola, di persone che hanno perso tutto e tutti ma che riescono a trovare anche nel post-catastrofe una ragione di vita in incontri nuovi. I sopravvissuti sono spesso soli, diffidenti e corazzati, ma non per questo meno umani. E i legami ai quali danno vita vanno a sovrapporsi senza mai sostituirsi a quelli della vita di prima, una vita che però consapevolmente non tornerà più.
Joel ed Ellie di The Last of Us sono davvero meno padre e figlia di quanto non siano Rick e Carl Grimes in The Walking Dead? Tra i due non c’è alcun legame di parentela, non hanno lo stesso sangue, Joel non ha mai cullato Ellie da bambina ed Ellie non si rivolgeva certo a lui quando ha pronunciato per la prima volta la parola papà. Eppure sono lì, nel mondo che viene dopo il mondo, dove morte e distruzione regnano sovrani, a volersi bene ancora. A costruire prima con diffidenza, poi con sempre maggiore fiducia, una relazione nuova. A sacrificarsi all’occorrenza l’uno per l’altra, perché la vita dell’altra persona vale molto più della nostra. Dopo aver perso tutto e averlo poi ritrovato, chi sono io senza l’altro?
Nelle loro differenze, entrambi i tipi di famiglia rappresentano un bisogno.
Un bisogno che nell’apocalisse del nostro individualismo si fa più vivo che mai: quello di avere una ragione in carne e ossa per la quale continuare a lottare. In un mondo disunito come è il nostro, aggrapparci gli uni agli altri è la chiave per la sopravvivenza.
Il buon Aristotele ormai un paio di millenni fa definiva l’uomo un animale sociale, portato per natura a riunirsi con i propri simili per creare insieme a loro dei gruppi sociali che lo aiutano a garantirsi la sopravvivenza. È da principi come questo che prende vita e forma il concetto di società, e in qualche modo possiamo far partire da qui anche la nostra voglia – o il nostro bisogno – di famiglia. Un nucleo che può prescindere da sangue e carte firmate, ma non può prescindere da un forte senso di appartenenza e da un sentimento profondo.
Famiglia come porto sicuro, come base da cui cominciare o ripartire, come gruppo che ci muove quando non riusciamo a farlo, e per la quale faremmo cose che nemmeno riusciamo a immaginare. Famiglia come gruppo, come persone che amiamo e delle quali abbiamo a nostro modo bisogno. Qualcuno direbbe in tristezza e in povertà, in salute e in malattia. In vita tranquilla e in apocalisse.