L’apocalisse come rivelazione

L’apocalisse come rivelazione

Cinema, podcast, musica e videogiochi come specchio liquido delle ansie del presente

C’è una sensazione sottile, liquida, che ci attraversa: non è la paura della catastrofe, ma la consapevolezza che il crollo è già avvenuto. Zygmunt Bauman chiamava tutto questo “modernità liquida”.
C’è qualcosa di simile nelle narrazioni distopiche contemporanee: l’apocalisse non come evento, ma come dissoluzione lenta di confini, relazioni, senso.

In The Zone of Interest ciò che inquieta non è ciò che si vede, ma ciò che resta fuori campo: il paesaggio ordinario di una famiglia tedesca che vive accanto a un campo di sterminio. L’orrore è quotidiano, interiorizzato, addomesticato. Non c’è disastro spettacolare, ma una normalità disturbante che assorbe tutto. È la forma più sottile di apocalisse: quella che si insinua, che diventa abitudine, che non fa più rumore. In sottofondo, una distorsione costante che non viene mai spiegata, solo percepita. Qualcosa è finito, e nessuno lo dice. Lo stesso avviene nei versi taglienti dei P38

Siamo la strada

Parliamo di strada di quello che accade

La puzza di piscio ha bruciato le case

La morte è arrivata, ma non ci ha trovati

Noi siamo la polvere sopra i diamanti (noi siamo)

Noi siamo la polvere sopra i diamanti

Non c’è rabbia ritualizzata, ma una dichiarazione lucida di fine: siamo oltre, e lo sappiamo. Il lutto è stato fatto senza cerimonia. Rimane il peso, il corpo da portare.

Nel presente che implode, la sorveglianza non è un’eccezione: è il default. Non servono più governi totalitari: bastano algoritmi che ti profilano meglio di te stesso, come in Black Mirror o Mr. Robot. L’interfaccia è il nuovo campo di battaglia. Lì si gioca tutto: desiderio, visibilità, reputazione, oblio. La distopia non è più una narrazione chiusa: è un flusso, un sistema di sintomi. E forse il vero crollo non è quello delle strutture esterne, ma quello del linguaggio, della possibilità di esprimersi, di raccontarsi fuori dai protocolli prestabiliti. La voce, quando riesce a farsi spazio, arriva stanca, tagliata, sovrapposta: ma arriva. Come un sussurro attraverso un’interferenza.

E quando anche l’intimità evapora — come in Her — l’amore diventa glitch. Una presenza anomala, non prevista dal sistema. Qualcosa che sfugge all’ottimizzazione. L’amore, in queste narrazioni, non è più lo spazio della sicurezza, ma quello della vulnerabilità assoluta. Non salva: espone. Non redime: apre. È un errore che non può essere corretto, ma proprio per questo dice la verità. Il glitch è l’interruzione imprevista di una sequenza: l’unico momento in cui si percepisce davvero il sistema. In un mondo che tende a standardizzare tutto, anche il sentimento, amare diventa un gesto distorto, un atto deviante, un rifiuto. Un tentativo di restare umani dentro un codice che ha smesso di esserlo.

Tutto si tiene, in un flusso che non si interrompe: crisi climatica, sorveglianza, dissoluzione dei legami, crollo delle narrazioni. Tutto è parte di un’unica mappa liquida. L’apocalisse non è più una narrazione da cine-computer grafica, ma una condizione immersiva, permanente. I videogiochi ci chiedono di sopravvivere; i podcast di raccontare; la trap di restare umani sopra una precisissima eco di solitudine. L’apocalisse non è una finzione: è una lente, uno specchio. Ci rivela al tempo stesso ciò che abbiamo perso e ciò che ancora possiamo proteggere. E proprio per questo, se il collasso è già cominciato, queste forme narrative non sono solo documenti: sono epifanie, istruzioni notturne, archivi sensibili. Non per salvarci, ma per permetterci — almeno — di riconoscere cosa resta.

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