Prison Break. Evasione, fuga, poi ancora evasione e fuga

Prison Break. Evasione, fuga, poi ancora evasione e fuga

Quella da una prigione è la liberazione per eccellenza. Perché la fuga, immagino debba essere uno dei sogni proibiti di ogni carcerato. Non si spiegherebbe altrimenti la fascinazione che il mondo del cinema ha da sempre avuto per i galeotti che progettano di saltare quel muro che li separa dalla libertà. Neanche la televisione si è risparmiata dal mostrare uomini in fuga dalle loro celle. E Prison Break è il perfetto esempio di una variazione su un tema già tanto sfruttato. Un’evasione, quella raccontata dalla serie andata in onda negli Usa per quattro stagioni sulla Fox, che dura ben oltre le mura della prigione. Perché la corsa dei protagonisti continua anche dopo che nell’ultimo episodio della prima stagione sono finalmente riusciti a varcare il filo spinato che li separava dal mondo libero.

La prima stagione di Prison Break muove da un assunto geniale quanto esagerato: Michael Scofield si fa incarcerare nella stessa prigione dove è rinchiuso il fratello per poterne agevolare l’evasione. Si è infatti tatuato su tutto il corpo la planimetria del penitenziario (alla cui costruzione aveva lavorato diversi anni prima), facendo della sua pelle una vera mappa verso la libertà. Ora, come si può facilmente intuire da questo abbozzo di trama, il filo conduttore che lega tutte le puntate (e le stagioni) della serie tv è da ricercarsi in una continua richiesta allo spettatore di rinnovare la sua sospensione dell’incredulità. Quel patto tra chi assiste allo spettacolo e il regista (o sceneggiatore o creator che dir si voglia) è qui continuamente messo alla prova: perché Prison Break ha bisogno di uno spettatore accondiscendente nei confronti della narrazione, di qualcuno che si abbandoni all’azione mettendo per quaranta minuti da parte ogni qualsivoglia concetto di realismo. È vero che questo si può dire per la gran parte dei prodotti filmici, ma in questo caso la necessità aumenta esponenzialmente. Perché ogni puntata della serie andata in onda su Fox spinge in avanti il confine del reale, lasciando allo spettatore due semplici scelte, l’una esclusiva rispetto all’altra: o abbandona la visione, visibilmente scocciato da quello a cui sta assistendo, o si lascia trasportare, incurante delle evidenti esagerazioni a cui assiste. Gli sceneggiatori sembrano perfettamente consci delle richieste che fanno a chi guarda, perché fondano la forza del loro lavoro nel creare di puntata in puntata e di stagione in stagione il cliffhangher più esasperato. Con le dovute proporzioni, ci si può trovare davanti a Prison Break armati del medesimo spirito che ci animava diversi anni fa durante le visioni di MacGyver; con la stessa voglia, quasi infantile, di essere sorpreso minuto dopo minuto. Il meccanismo in questione funziona bene (benissimo!) nel breve periodo, in questo caso per tutta la prima stagione, ma quando calano le idee e le trovate geniali, la serie mostra un po′ la corda, lasciando trasparire la mancanza di fondamenta solide su cui poggia. Prison Break, proprio per le sue esasperazioni, resta uno dei vessilli che meglio rappresentano la liberazione da un carcere di massima sicurezza, possibile solo se la sospensione dell’incredulità dello spettatore, ma ancora prima dei carcerati, viene continuamente rinnovata.

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