Boris, la società dello spoiler
Regia 3
Soggetto e sceneggiatura 3
Fotografia 3
Cast 4
Colonna sonora 2

«Questo è spoiler!», grida Stanis Larochelle, nei panni di Gesù di Nazareth, indicando il tatuaggio di una croce sul bicipite di una comparsa sul set. Una battuta che spiega 33 anni di vita di un uomo e quasi 130 anni di storia del cinema. Sempre in quella battuta c’è la capacità del cinema, inteso come ..

Summary 3.0 bello

Boris, la società dello spoiler

«Questo è spoiler!», grida Stanis Larochelle, nei panni di Gesù di Nazareth, indicando il tatuaggio di una croce sul bicipite di una comparsa sul set. Una battuta che spiega 33 anni di vita di un uomo e quasi 130 anni di storia del cinema. Sempre in quella battuta c’è la capacità del cinema, inteso come linguaggio, di raccontarsi, di mostrare se stesso, di, contemporaneamente, poter dire «non lo famo, ma lo dimo». In questa battuta poi si riconosce e si rende evidente il carattere menzognero del cinema, riusciamo in questo modo a superare quella «linea netta che separa la finzione dall’interpretazione che decidiamo di darle», come dice Marco Bacchi nell’editoriale di questo mese.

Boris, la serie italiana più cult (forse di sempre) è tornata sul piccolo schermo, questa volta in piattaforma, su Disney+, confrontandosi quindi con nuovi linguaggi mediatici, nuove utenze, nuovi target, nuovi ruoli sul set e nella società. Non è più il tempo del Direttore di Rete che deve subire le scelte del Dottor Cane, impomatato Capo indiscusso della Rete. È il tempo del Dirigente della Piattaforma, Alessandro (l’ex stagista), che deve mettere in pratica le richieste di Allison, Manager della Piattaforma, dinamica, attenta ai trend mediatici per non perdere visibilità, per non macchiare l’immagine della piattaforma, per stare sul pezzo. Quale sia la differenza tra subire ed eseguire, poi, il capitalismo non ce lo dice. 

Raccontare il cinema significa raccontare la realtà. «E sti cazzi» direbbe Martellone, aggiungendo subito dopo – me lo immagino ispirandosi a Gifuni -, che quando il cinema ha imparato a raccontare se stesso ha potuto mostrare in maniera evidente e violenta la società e i suoi ruoli, i suoi meccanismi perversi, il cadavere putrefatto di un costrutto culturale, incapace invece di meta-narrarsi. 

Attraverso la rappresentazione ironica che Boris fa della realtà produttiva si riescono a vedere in maniera esplicita i rapporti di potere che si vanno a creare in quel piccolo cosmo che è il set. A pensarci bene, l’ottica, la visione che emerge principalmente dalla serie – non solamente dalla quarta stagione, ma dall’intera serie – è una visione marxista della realtà (o almeno possiamo leggerla in questi termini). La manovalanza, gli operai, le maestranze non sono assolutamente padroni della produzione, ma soltanto, e forse neanche di quello, della forza-lavoro. I modi di produzione capitalistici vanno a determinare non soltanto i rapporti con il potere verticistico rappresentato dalla Manager – che lavora anche nel tempo libero, o meglio che ottimizza il suo tempo libero lavorando -, ma anche le relazioni sentimentali/amicali tra i lavoratori. Il capitalismo si è preso tutto, anche le emozioni per riprendere Byung-chul Han. Non solo, Allison è l’incarnazione del capitalismo delle emozioni che descrive il filosofo sudcoreano, in quanto è il suo modo di agire che dà forma e sostanza al prodotto da realizzare, dove la sostanza deve essere necessariamente emozionale e in linea con i trend del momento. E quindi con le parole di Byung-chul Han: «Ora è il sociale, la comunicazione, anzi il comportamento stesso a essere sfruttato; le emozioni vengono impiegate come “materia prima” per l’ottimizzazione della comunicazione».

Boris, allora, racconta il cinema, racconta la realtà, racconta il capitalismo, racconta la società di oggi dove tutto quanto è una menzogna, dove tutto è l’opposto di tutto, dove domandarsi quale sia la verità è superfluo. Una società in cui spoilerare è diventato un atto rivoluzionario e sovversivo. E Stanis lo sa bene. 

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