Guadagnino, l’immagine e l’estetica

Guadagnino, l’immagine e l’estetica

Spesso, guardando oggi alcuni capolavori del passato, focalizzandomi sulle immagini asciutte e dense di significato che li compongono, mi sono poi ritrovata a riflettere sul ruolo dell’immagine e dell’estetica nel cinema odierno, sulla cura a volte maniacale di questo dispositivo, e sull’importanza che ha per lo sguardo di chi è nato e cresciuto in un contesto dove l’immagine è ormai tutto, o quasi. Parlando in redazione del ruolo dell’immagine, ho ripensato a Bones and all di Luca Guadagnino, un film che – visivamente parlando – per me è quasi un dipinto nel cinema contemporaneo ma che, a distanza di oltre un anno dalla visione in sala, mi ha lasciato più immagini che storia.

Senza generalizzare troppo, ritengo che un certo cinema contemporaneo è un cinema prevalentemente bello, piacevole allo sguardo, attento alla cura delle immagini che a volte trapassano i film e diventano canoni estetici applicati al mondo esterno, filtri del nostro sguardo. Penso nuovamente a Guadagnino e al suo Call me by your name che, attraverso le immagini perfette e catartiche di Crema e di certe dinamiche che si intrecciano con una campagna fotografata in modo desiderabile, ha monopolizzato il modo di guardare, decifrare e ricercare i luoghi all’esterno. Ne nacque addirittura un filtro sui social, Somewhere in Southern Italy, riprendeva la palette del film da applicare a tutto ciò che rievocasse nella mente quel film e quell’estetica. Ma ancora più e ancor prima di Guadagnino, è stato Wes Anderson a utilizzare nei suoi film l’immagine in modo talmente preciso e caratterizzato da far nascere uno stile estetico inconfondibile che va oltre le storie che si articolano all’interno di quelle stesse immagini. L’impressione che avverto, dunque, è che l’immagine sia diventata una priorità, un elemento del film sul quale non è più concesso approssimare, curata a tal punto che a volte si scolla dalla realtà e inizia a viaggiare per strade proprie. E non solo nel cinema, ma in generale in qualunque articolazione dell’audiovisivo, compresi i feed dei social in cui il nostro sguardo evolve e in cui vige una sorta di monopolio della gradevolezza.

Il film, dunque, diventa anche un esercizio estetico, l’estetica stessa diventa materica, in alcuni casi si riempie di sostanza, in altri la sovrasta e la divora, fino ad occultarla. È questa l’impressione percepita guardando Bones and all, un’esperienza esteticamente perfetta in cui Guadagnino ha messo l’immagine a servizio della crudezza del cannibalismo, l’ha fatta sua senza mai sfociare nel banale, restando sempre distante da facili derive splatter e rendendo quasi gradevole l’esperienza sanguinolenta della carne. L’estetica, in questo caso, è stata la porta d’accesso ai turbini adolescenziali dei protagonisti, due giovanissimi ai margini della società, spiritualmente orfani di genitori assenti e completamente assorbiti da un amore cannibale difficile da contenere, da gestire e da spiegare alla società. Una storia di formazione fatta di solitudini ed esclusione, risolvibile solo con la ricerca dell’altro. Una storia profonda sovrastata quasi totalmente da un’immagine perfetta. Già in passato Guadagnino aveva approcciato nei suoi film la complessità adolescenziale, anche se con i toni più docili e pastellati di Call my by your name, un film dove il desiderio era innocuo, seppur anche lì stigmatizzato, e la ricerca dell’altro era un processo logorante dentro ma raccontato con delicatezza. Nel primo caso un’estetica cruda e perfetta, nel secondo un’estetica tenue e perfetta. Due storie in parte diverse ma entrambe guidate da immagini che, nella loro perfezione, provano a dialogare con l’esistente e parlano al loro pubblico. 

Dunque, quanta storia può articolarsi dietro un’immagine impeccabile? Qual è il giusto equilibrio tra i due dispositivi all’interno di un film? Ci pensavo alla fine di Bones and all, quando ero sazia di immagini che continuavano a percuotermi, più di quanto non avesse fatto la storia raccontata. Non credo si tratti di un’estetica vuota, quella che abita il cinema di Guadagnino e, più in generale il cinema contemporaneo. Quelle immagini, pur essendo a volte troppo patinate e ingombranti, riescono ancora a dire qualcosa della complessità che viviamo, tra reale e immaginario. 

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