BILLY #1.2017 – (IL MONDO COME VOLONTÀ E) AUTO-RAPPRESENTAZIONE

BILLY #1.2017 – (IL MONDO COME VOLONTÀ E) AUTO-RAPPRESENTAZIONE

Fuocoammare che vince a Berlino è una buona notizia? E Sacro GRA che vince Venezia? E le tante statuette di La La Land ci fanno felici? Perché il cinema è volontà e (auto)rappresentazione – giusto per ribaltare il titolo del nuovo numero cartaceo di BILLY? Un numero molto particolare, che ci piace molto, che ci intriga, perché ha elementi di splendida e coraggiosa incoerenza e illuminazioni brutali di assoluta continuità.

Rocco Ronchi ci spiega che l’atto di guardare è un atto immorale, in realtà, e ci costringe a rivedere i termini che usiamo e l’assunto di cautele che ogni “documentatore” introietta nel momento in cui vede il reale (ma anche l’irreale); Antonio Monti – inaugurando lo spazio dedicato ai film in sala – ci entusiasma con una riflessione neppure troppo polemica su La La Land e le “polpette da Oscar” che fingono di non esserlo; Johnny Bergamini propone un’ardita riflessione sullo spazio come auto-rappresentazione dell’uomo, mentre Francesca Leoni ci racconta come nasce un percorso corporeo, umano e intimo come quello delle sue video-performance. Poi c’è la fotografia, abbacinante, di Filippo Venturi, che aggiunge uno squarcio vertiginoso. Tutto raccontato e strutturato dalla nuova veste grafica realizzata da Silvia Zaghini, una nuova splendente pelle per BILLY.

Ma perché le domande poste all’inizio di questo editoriale, allora? Semplicemente perché il cinema, quando diventa vuota ripetizione di se stesso, articolata e cosmetica celebrazione delle propria potenza, perde clamorosamente di senso. E si fotte, in sostanza. Eppure, paradossalmente, è solo attraverso questa stomachevole dichiarazione di esistenza, realizzata nella narcisistica rappresentazione della propria effige necrofila, che il cinema – ma più in generale l’immagine in movimento: pubblicitaria, politica, seriale, virtuale, sociale… – sembra oggi sopravvivere ed esplicitare la propria capacità mitopoietica. In questo senso l’auto-rappresentazione non è meta-cinema, non è meta-immagine, è solo vacua resistenza alla caducità nell’anonimo deserto del guardare, inteso – come dice Rocco Ronchi – come atto che implica l’impossibilità del capire.

Ma ci poniamo certe domande anche perché, giusto per ricordare la felicità del Dogma 95, ci vuole il coraggio di quella povertà – che non è povertà in generale, ma è una e precisa – che ti permette, infine, di vedere.

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