Speciale Berlino: Orso d’Argento a Paul Thomas Anderson
Regia 5
Soggetto e sceneggiatura 4
Fotografia 5
Cast 5
Colonna sonora 5

Quando nel 2008 There will be blood (da noi Il Petroliere) vince l’Orso d’Argento per la miglior regia a Berlino, il film è uscito nelle sale statunitensi già da dicembre del 2007, con una prima proiezione di fine settembre al Filmfestival di Austin, in Texas. Alla competizione della Berlinale Paul Thomas Anderson si presenta quindi ..

Summary 4.8 favoloso

Speciale Berlino: Orso d’Argento a Paul Thomas Anderson

Quando nel 2008 There will be blood (da noi Il Petroliere) vince l’Orso d’Argento per la miglior regia a Berlino, il film è uscito nelle sale statunitensi già da dicembre del 2007, con una prima proiezione di fine settembre al Filmfestival di Austin, in Texas. Alla competizione della Berlinale Paul Thomas Anderson si presenta quindi con una certa reputazione costruita “in casa”, e non solo: solo otto anni prima il suo terzo film Magnolia aveva vinto l’Orso d’Oro. E ancora prima della fine del festival (il 17 febbraio del 2008) il film è uscito in buona parte delle sale di tutto il mondo. La giuria che fa capo al regista Costa Gravas premia con l’Orso d’Oro Tropa de elite del brasiliano Jose Pedilha, ma la miglior regia e la colonna sonora vengono riconosciute al quinto film di Paul Thomas Anderson: due premi artistici importanti che intercettano con lucidità il prestigio dell’opera, la sua centralità nella cinematografia statunitense di inizio 21° secolo e nel decennio a venire, alimentando una serie di riconoscimenti che “culmineranno” una settimana dopo agli Academy Awards di Hollywood. Due premi su ben 8 candidature: miglior fotografia per Robert Elswit e miglior attore protagonista per Daniel Day Lewis. Difficile dire chi avrebbe meritato di più il miglior film dell’anno e miglior regia tra quello di Anderson e il vincitore, l’altrettanto importante Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen. Entrambe due cupe sceneggiature non originali che condividono una visione della poetica della violenza americana nel cinema del nuovo secolo.

Il verdetto degli Oscar nel 2008 fu combattuto ma perfettamente equilibrato, considerando che un premio alla regia Anderson se lo era già aggiudicato grazie ad una importante giuria berlinese, mentre i fratelli Coen erano rimasti a bocca asciutta dall’anno prima a Cannes. Ma non siamo qui per disquisire su dei premi: quello che preme riflettere, a 17 anni dal riconoscimento dell’Orso d’argento a Anderson nel 2008, è la sua posizione alla fine di una serie di accoglienze europee che hanno reso l’annata precedente, il 2007, decisiva per il cinema statunitense che poi si sarebbe ritrovato a premiarsi in casa al Kodak Theatre di Hollywood, il 24 febbraio del 2008. Facendo un po’ di ordine prima di Berlino nel 2008: dell’anno prima a Cannes ricordiamo il film dei fratelli Coen, Zodiac di David Fincher, A prova di morte di Quentin Tarantino e anche Paranoid Park di Gus van Sant; a Venezia L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, Io non sono qui di Todd Haynes e Redacted di Brian De Palma, e dalla Berlinale di quell’anno spicca Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood, che poi avrebbe concorso agli oscar con la prima vittoria per Martin Scorsese al Miglior Film e Regia (The Departed – Il Bene e il Male). Considerando questa mappatura delle accoglienze europee ai film statunitensi del 2007, i registi più anziani (quelli nati nella New Hollywood: De Palma, Scorsese, Eastwood) si fanno da parte per gli Oscar del 2008, lasciando il concorso alle principali candidature a registi più giovani che hanno esordito tra gli anni ’80 e ’90, tutti reduci da anteprime ai maggiori festival in Europa, ultimo su tutti Paul Thomas Anderson, il più giovane e l’unico che arriva agli Oscar con un premio alla miglior regia dalla Berlinale diretta al tempo da Dieter Kosslick.
Chi è quindi Paul Thomas Anderson nel 2008? Cosa diventerà il suo cinema dopo?

A 37 anni, Anderson è uno dei registi che hanno maggiormente segnato gli anni Novanta, con un esordio invidiabile a soli 26 anni (Hard Eight), una seconda opera con cui si consolida dentro il business hollywoodiano (Boogie Nights) e una terza opera (Magnolia) con cui saluta il 20° secolo prima di vincere l’Orso d’Oro a Berlino nel 2000, riconoscimento che tuttavia non fa una eco altrettanto forte per gli Oscar come otto anni dopo. In ogni caso, dopo tre film in soli quattro anni, Anderson dirige un quarto film solo in apparenza più semplice, Ubriaco d’Amore del 2002, “la” commedia romantica con Adam Sandler che purtroppo lascia sorgere dubbi nella critica su un possibile esaurimento della carica creativa di uno dei più talentuosi Mavericks di fine anni ’90, soprattutto alimentati dall’inusuale e prolungato silenzio del regista negli anni a seguire. 

Nonostante il più grande riconoscimento della Berlinale nel 2000, la scelta della giuria di premiare nuovamente Anderson con la miglior regia nel 2008, riconosce in There will be blood un’opera dall’indubbio rinnovamento stilistico e narrativo, ma anche un fondamentale lavoro di meditazione su una lunga preparazione artistica e produttiva, a partire dal coinvolgimento di una star come Day Lewis fino ad un lavoro di ricerca storica in cui diventa centrale la collaborazione con il direttore artistico Jack Fisk, il direttore della fotografia Robert Elswit, il costumista Mark Bridges, oltre alla prima e fortunata sinergia con le musiche di Jonny Greenwood. Una tessitura di talenti artistici volta a restituire l’immagine più vivida possibile della California all’inizio del ventesimo secolo. 

Il lavoro di accuratezza storica testimonia non solo un maggiore perfezionismo del regista, ma anche l’ambizione intellettuale di confrontarsi per la prima volta con un lavoro di adattamento. Il romanzo di partenza è Oil! di Upton Sinclair del 1926 che Anderson tradisce per sottrazione fino a considerarne principalmente la prima parte. Daniel Day Lewis dà voce e volto al protagonista Daniel Plainview ispirato al magnate Edward L. Doheny, un minatore nato dalle viscere di una cava dove il primo contatto col petrolio accende l’irrefrenabile sete di potere nella saga famigliare di Plainview e del suo figlio adottivo H.W., rimasto orfano nel deserto dopo che un incidente toglie la vita al padre. Anche qui il caso, nei primi sbalorditivi venti minuti senza dialogo del film, gioca un ruolo scatenante come nell’altrettanto celebre prologo di Magnolia, insieme ad altri temi ricorrenti dai primi film: la relazione ostile tra padri e figli, l’ambiguo ordine patriarcale su cui si costruiscono i rapporti economici di un nucleo famigliare in crisi, l’indagine del Capitale nella vita americana. Quest’ultima, nei film precedenti, non poteva esistere al di fuori di un paesaggio contemporaneo imbevuto dei media, mentre nella sua quinta opera Anderson si focalizza sul carattere ancestrale delle istanze capitalistiche che innervano la violenza americana, dal doppio volto del Capitale, quello dell’industria petrolifera e quello degli interessi della chiesa incarnati dal giovane Eli (interpretato da Paul Dano). È anche meno evidente una ricercata coralità per accogliere una prospettiva di racconto che verte quasi totalmente sulla psicologia di un protagonista bigger than life tanto quanto il celebre Macellaio che Day Lewis aveva impersonato pochi anni prima in Gangs of New York di Martin Scorsese. Uno studio sul personaggio che l’attore e il regista modellano con tratti grotteschi, se non proprio orrorifici, dove il corpo di Plainview/Day Lewis è costantemente al centro dello spazio californiano: un corpo-territorio che si appropria degli oceani sotterranei alla terra brulla e arida che rimanda a classici come Il tesoro della sierra madre e Chinatown.  Anderson guarda lo spazio dispiegando una serie di strumenti di regia maggiormente controllati e distaccati, prediligendo campi lunghi, lenti piani sequenza in cui lasciare improvvisare gli interpreti, dove l’orizzontalità panoramica delle tubature che si espandono taglia la verticalità esplosiva dei pozzi, degli interessi violenti ed estrattivi delle persone che Plainview prima avvicina e poi respinge, in primis il figlio.

Più che una cesura, There will be blood è un audace film di passaggio nella filmografia di Anderson: un’opera di rilettura e aggiornamento della sua poetica d’esordio che da quel momento in poi ripercorrerà il tempo passato del Novecento fino al dopoguerra di The Master e, di nuovo, gli anni Settanta di Vizio di forma e Licorice Pizza. Il carattere ancestrale attraverso il quale Plainview si è insinuato nell’immaginario collettivo dei primi anni 2000 ha messo di fronte agli USA di George Bush Jr uno spettro delle pulsioni fratricide e ultracristiane dei suoi mandati, quelli che di lì a poco lasceranno alla presidenza Obama anche le ferite della congestione finanziaria del 2008. Col senno di poi, il reale ha avuto un epilogo inevitabile tanto quanto l’ultimo capitolo del film, aperto da quel 1928 che lascia solo Daniel Plainview un anno prima del crollo della Borsa di Wall Street. La parabola allegorica dell’atavica avidità di Plainview, il conflitto d’interessi con la Chiesa della Terza Rivelazione di Eli Sunday e il rapporto col figlio H.W., restituiscono il termometro di una nazione in subbuglio che Anderson ha saputo, e continua a farlo, radiografare a partire da una rielaborazione del proprio stile, della scrittura e della padronanza artistica di un progetto che non poteva che chiudersi con una dedica a Robert Altman, venuto a mancare un anno prima dopo il suo ultimo film, sul quale Anderson aveva lavorato come aiuto regista.

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