Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson.
Nella Londra degli anni ’50, l’etichetta Woodcock è una certezza per le donne dell’alta borghesia: significa avere il miglior abito che si può chiedere per un matrimonio, oppure significa addirittura desiderare di essere seppellite con un abito che porti quella firma. È Reynold Woodcock (Daniel Day Lewis) che disegna, tesse e crea i suoi famosi capi d’abbigliamento seguendo una serie di regole giornaliere che gli permettono di portare avanti un rigoroso, assorto e dedito lavoro che si tramuta in opera d’arte. La sua è una routine precisa e severa che non lascia spazio a facili amori, ma si sa, l’amore può bussare alla porta da un momento all’altro ed è quando gli occhi di Woodcock incrociano quelli della goffa e sbadata cameriera Alma (Vicky Krieps), sua prossima musa e amante, che tutte le sue certezze e fragilità vengono messe in discussione.
Giunto all’ottavo lungometraggio, Paul Thomas Anderson abbandona il territorio americano per la prima volta, abbandona quell’America che già nel suo primo trittico di film era un ricco terreno nel quale dimostrava una matura impostazione autoriale e registica, che inizialmente ripescava dal cinema di Scorsese e Altman, con mano spesso citazionista e a tratti modaiola ma inevitabilmente appagante; quell’America che con il film di svolta del 2003, il sottovalutato Ubriaco d’amore, diventa specchio di anime solitarie incapaci di trovare un senso nel mondo, sempre più complesso già da Il petroliere, in cui all’alba dei pionieri dell’industria petrolifera americana si scontrano due facce della stessa medaglia come la Chiesa e il Capitalismo. Nel bistrattato The Master, non meno complesso (anzi), lo sguardo si annida sempre di più nella psiche perturbante dell’uomo, tra istinto e ragione, tra sogno e realtà, tra devozione e ribellione a misteriose sette religiose del secondo dopoguerra. Tre anni fa PTA fu il primo a portare un romanzo “impossibile” di Pynchon al cinema, firmando un noir in erba come Vizio di forma, a metà tra Altman e i Coen, un viaggio in un’America di inizio anni 70 in balia di incomprensibili intrighi, di misteriose multinazionali e cospirazioni neonaziste, e di una coralità di personaggi sfuggenti lungo una trama scissa tra allucinazione e complottismo.
Ne Il filo nascosto l’America non c’è, però siamo negli anni ‘50 come in The Master, quindi forse è un fantasma che riecheggia come quel filo fantasma suggerito dal titolo originale, attraverso un immaginario fatto di foto, manichini, set fotografici e luci artificiali che vanno tanto di moda in quegli anni di ricchezza, tipica del mondo borghese del dopoguerra. Forse, ma in questo film si annidano altri fantasmi, all’interno della grande casa di Woodcock, luogo dove si sviluppa buona parte di un film che rappresenta la pellicola più british di PTA, avendo come punti di riferimento il cinema di Hitchcock (Rebecca su tutti), ma anche Joseph Losey, Max Ophlus e lo Scorsese di L’età dell’innocenza.
Il filo nascosto si dipana lungo tutta la stratificata e numerosa produzione di Woodcock attraverso piccoli ricordi, frasi e messaggi cuciti nelle trame invisibili dei vari capi d’abbigliamento; così facendo Woodcock fa vivere qualcosa di se stesso dentro ogni abito, come la ciocca di capelli o la foto del fantasma della madre che porta sempre con sè.
Come Reynold Woodcock, Paul Thomas Anderson intesse con chirurgica precisione e rigore formale un film di superfici in cui si dipana il filo nascosto della sua poetica: l’incontro e scontro tra due anime.
Il filo nascosto che lega l’anima di Woodcock a quella di Alma (non a caso “anima” in spagnolo) si muove lungo il film con lo stesso rigore che lo stilista riserva alle sue creazioni: Anderson nasconde e rivela i suoi fantasmi attraverso una maestosa regia che gioca di non detti, di silenzi e fuori campo; poi taglia e cuce la sua opera grazie un montaggio preciso che sa quando costruire serrati scontri di campi/controcampi, dare respiro a immancabili piani sequenza, fondere i personaggi con gli ambienti in lente dissolvenze; sceglie il colore perfetto del suo tessuto firmando per la prima volta la fotografia (seppur non accreditandosi il merito), dirigendo drammatici giochi di luci, ombre e colori di un gusto pittoresco ossessivo e maniacale (qualcuno ha scomodato John Alcott di Barry Lyndon e mi trovo d’accordo); e infine ascolta e valuta il rumore del suo materiale affidando la colonna sonora per la quarta volta a Jonny Greenwood, che firma forse il suo più maturo e incantevole accompagnamento musicale per un film.
Reynolds Woodcock è come Barry Egan di Ubriaco d’amore, un uomo solo, un uomo circondato continuamente da donne, da Alma, da sua sorella Cyrill (una magistrale Leslie Manville), dalle impiegate del suo atelier, dalla signora che finanzia l’impresa sua e di sua sorella, dalle principesse che lui veste e dalle ammiratrici che appunto vorrebbero essere seppellite dentro i suoi abiti. Daniel Day Lewis regala al mondo la sua ultima trasformazione in un uomo magro ed esile, dal portamento elegante e preciso, dai modi insofferenti e silenziosi, motivo per i quali la visione in lingua originale è quanto mai preziosa. Il Woodcock di Lewis è un acuto osservatore del Gusto al di fuori del quale non esistono altri gusti, ma è incapace di osservare il mondo fuori, quello che lui ripudia perché chic!: egli riesce solo ad osservare le sue modelle, trarne piacere come un voyeur dallo spioncino di una porta.
Il Daniel Plainview di Daniel Day Lewis, ma anche il Freddie Quell di Phoenix in The Master, era un uomo reso malato dalla sua ossessione onnivora di ricchezza e quindi, nel finale de Il petroliere, destinato a una violenta e grottesca regressione fisica animalesca, quasi scimmiesca. Diversamente ne Il filo nascosto Woodcock è un uomo che accetta la sua fragilità davanti all’incommensurabile potere dell’amore, come Barry Egan davanti alle sue crisi di nervi, e quindi destinato anch’esso inevitabilmente a una regressione, ma a quella di uno stato infantile di innocenza, come un bambino indifeso e al sicuro sul grembo di Alma, l’unica possibile figura materna che va a rimarginare la ferita lasciata aperta dal fantasma della madre.
Alma come Mater, dal latino “madre nutrice”, è un ironico (chi ha visto il film capirà) ed esplicito riferimento con il quale possiamo identificare la figura di Alma, prima goffa e innocente donzella che si farà ammaliare dal mondo lussuoso e sgargiante di Woodcock, e dopo amante e moglie solitaria (è lei l’altra anima sola del film) che capirà di essere dentro un gioco pericoloso, quello di Woodcock ma anche quello di un amore che per raggiungere una tale purezza ha bisogno di mettere in discussione le sue fragilità e morbosità.
Woodcock e Alma rappresentano l’ennesimo incontro tra due persone che per ritrovarsi hanno bisogno di scontrarsi, per amarsi hanno bisogno di odiarsi, per trovare Pathos ci vuole l’Eros, e viceversa. Anderson colloca Daniel Day Lewis e Vickie Kriesps in un tempo sempre meno tale e in uno spazio che ribalta continuamente i loro ruoli (emblematiche le continue scene sulle scale, a tavola e a colazione), e infine delinea con delicatezza il filo nascosto e universale che rende tale la loro relazione di coppia tra i silenzi, gli ambienti, i vestiti, i tessuti e infine gli sguardi.
Il filo nascosto è un’opera monumentale e completa che alza ulteriormente l’asticella del cinema di Paul Thomas Anderson ma anche del cinema contemporaneo perché è una sorgente di pura settima arte; una magistrale lezione che mette in moto una macchina cinema dal ritmo serrato, capace di districarsi tra il thriller di Hitchcock e momenti di grande intensità melodrammatica, con una sequenza d’antologia durante un’immancabile festa di capodanno (topos ricorrente nel melodramma come nella commedia romantica), senza risparmiarsi neppure momenti di irresistibile ironia alla Hawks. Tra gli ultimi film di Anderson è forse anche quello più accessibile e accattivante, ma non meno complesso e psicologico di un film come The Master. Un’opera di valore universale, costantemente fedele all’atmosfera magica e unica della pellicola in 35mm, all’illusione che ci permetta di tornare fragili come Woodcock, di lasciarci andare all’anomalia dentro l’ordinario per poterci sentire di nuovo affamati.