Cronache festivaliere #2

Cronache festivaliere #2

Il nostro quartier generale, da bravo Ostello (della gioventù, si sarebbe detto un tempo) puzza giustamente di piedi, brufoli, ascelle e speranze ormonali, ma gli vogliamo bene anche per questo.

In più abbiamo notato che il nostro essere italiani comincia a suscitare qualche perplessità, in giro per la Berlinale. Così, fieri della nostra pericolosità epidemica e forti della nostra ipocondria, affrontiamo quella che sappiamo già essere la giornata più lunga, il DDay del Festival, con cinque proiezioni in programma.

Per iniziare bene la giornata e ricordarci da dove veniamo, partiamo la mattina con due straordinari documentari degli anni ‘70, uno dedicato interamente alla grande Angela Davis, militante comunista afroamericana, e l’altro alla libertà di stampa nella Spagna franchista della fine degli anni sessanta. Due lavori, soprattutto il primo, che — al netto di quelle che oggi ci appaiono come ovvie ingenuità, ma che in realtà sono linguaggio e presenza — ci riconciliano con la potenza di un genere che mai come nella contemporaneità andrebbe praticato in un’ottica di povertà militante. Ovazioni dentro e fuori di noi.

Il resto della giornata è dedicato al concorso.

Il Berlinale Palast accoglie con affetto Hong Sang-soo ed è giusto che sia così. “The Woman Who Ran” è un film per così dire consueto, per il maestro sudcoreano. Lunghe inquadrature, zoom improvvisi, dialoghi infiniti, ma — come sempre — c’è qualcosa che, nella semplicità del suo cinema, Hong riesce a far fremere e agitare sotto la superficie, come un prurito, un’irritazione fastidiosa che non passa.

Tifo da stadio a cui prendiamo parte con entusiasmo — siamo italiani all’estero, d’altronde — per “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo (che regalano il loro numero di cellulare al mondo), già Orso d’Oro del nostro cuore. Commedia nera senza essere grottesca, film imperfetto e perciò ancora più interessante, “Favolacce” è il ritratto impreciso e di parte di un’umanitá pessima e scaduta, becera e insopportabile, che neanche la presunta innocenza dei bambini può salvare. Applausi, abbracci, Elio Germano commosso in sala e coronavirus per tutti.

Coda anche per vedere il durissimo ”Dau Natasha”, coda durante la quale scopriamo che anche i tedeschi saltano la fila e che facciamo insieme a una serie di emissari di Putin che evidentemente sono qui a condizionare l’esito della Berlinale. Il film — uno dei tredici nati dal progetto folle ed epocale di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel e delle 700 ore che ne sono derivate — vede una straordinaria Inna Schort cercare di resistere a una vita miseranda e periferica in una fredda provincia dell’URSS del dopoguerra tra alcol, violenza, sesso esplicito tra ultra-sessantenni , ricerche segrete e polizia politica. Grande lavoro, forse impossible da comprendere senza lo sguardo d’insieme.

Poi, come sempre, l’M41 arriva all’improvviso e si torna felici all’oramai già leggendario Happy Bed Hostel.

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