Cronache Festivaliere #3
Mentre a Berlino i palazzi cambiano colore e si alzano di tre piani durante la notte, il nostro quartier generale si riempie di nuovi profumi provenienti dalle cucine, dove si cerca di mangiare qualcosa senza dar fuoco allo stabile, finora con ottimi risultati, almeno dal punto di vista igneo.
Ancora provati dal DDay, riduciamo il numero di film, ma di sicuro non la qualità, mentre il tempo è inclemente e piove e quasi nevica, anche se non te ne accorgi.
Partiamo — come di consueto — con i documentari che la programmazione, che non loderemo mai a sufficienza, della sezione Forum ci regala ogni splendido giorno.
“The Women’s Film” è un doc di inizio anni ‘70, realizzato da un collettivo femminista della baia di San Francisco, pieno di errori cinematografici, dovuti — come racconteranno emozionate due delle autrici (oramai orgogliosamente a ridosso della settantina) nell’incontro successivo — alla totale inesperienza, ma ricco di contenuti potenti e politicamente esplosivi. Working class, questione razziale e genere uniti in un’intuizione ancora estremamente attuale.
Anche la seconda proiezione — sempre ‘70s — è interessante, “Irene”, non esattamente un documentario, quanto più un manifesto tedesco che sembra parlare dell’attualità, nonostante i cinquant’anni trascorsi dalla sua realizzazione. Un po’ troppo didascalico, forse, se messo a confronto con il precedente, ma un documento ancora oggi impagabile.
La sera, in quella specie di meraviglia improvvisa che è il Friedrichstadt-Palast, si sta sotto l’acqua ad aspettare una fila chilometrica. La proiezione non è per la stampa, e Berlino come città risponde massicciamente al papabile Orso d’Oro: “Undine” del figliol prodigo Christian Petzold. Il film è doloroso e delicato, tragico e a tratti surreale, increspato come l’acqua di un fiume pericoloso. Notevolissimo di sicuro, ma l’opinione, a caldo, subito dopo la proiezione, è che in concorso ci sia qualcosa, anche se poco, di meglio.
Ed è buona anche la pizza che mangiamo dopo la proiezione, in un posto in cui parlano la nostra lingua e si beve solo vino della penisola. Cioè, in Italia di sicuro ne abbiamo assaggiate delle peggiori.