Don’t look up
Poteva puntare più in alto
Che dire di più rispetto a tutto quello che è già stato detto sull’ultimo film di Adam McKay? Forse niente, forse molto. Sicuramente c’è da dire che non è il “film dell’anno”, non “fa venire voglia di gridare”.
Don’t look up, piuttosto, fa venire sonno (3 su 5 persone accanto a me dormivano). Se si togliessero almeno trenta minuti di girato, al centro del film, non cambierebbe niente, ci sarebbero le stesse informazioni e il film avrebbe guadagnato di funzionalità, almeno per me.
Ma vabbè, andiamo con ordine.
Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence sono due astronomi statunitensi che mettono in guardia il governo statunitense dell’imminente scontro di un asteroide con il pianeta terra, che la potrebbe distruggere. Cosa farà Meryl Streep nei panni della prima Presidente donna degli Stati Uniti d’America? Niente, ovviamente, prende tempo perché ha tematiche, diciamo, “più politiche” da portare avanti. Insomma, non è il momento delle catastrofi. Gli astronomi allora scavalcano il governo, si rivolgono direttamente alla popolazione e vengono invitati in una trasmissione televisiva di punta, una sorta di Tagadà a stelle e strisce. Quando Jennifer Lawrence capisce di non essere presa sul serio dai conduttori (Tyler Perry e Cate Blanchett), fa quello che non si deve fare durante uno show: alterarsi e litigare. In un istante diventa un meme. Per scongiurare la distruzione della Terra, la Presidente degli Stati Uniti affida a Peter Isherwell, CEO della BASH, la più grande compagnia di alta tecnologia, il compito, inizialmente di disintegrare l’asteroide, e successivamente di recuperare i residui minerari di cui è ricco. Insomma, il capitalismo che vince non solo sull’ambientalismo, ma soprattutto sull’umanità.
A mio avviso la caratteristica più importante di Don’t look up è il dialogo con gli altri linguaggi. Infatti, oltre al linguaggio cinematografico e la sua punteggiatura il film parla la lingua degli spot pubblicitari, dei social media e dei meme, della comunicazione istituzionale e di quella scientifica e anche quella prettamente politica.
Insomma, la domanda che ci siamo fatti tutti quanti durante la pandemia, almeno in Italia, è presente nel film: come si fa a comunicare così male una situazione di emergenza come quella iniziata nel 2020? Don’t look up parla di questo, di una comunicazione istituzionale fatta male, di una classe politica legata ancora ai propri interessi e non a quelli della cittadinanza. Il film è stato pensato prima della pandemia di COVID-19, ma i nessi con essa sono palesi ed è per questo che ha avuto tanto successo.
Ma se avesse voluto essere il film dell’anno, a mio avviso, avrebbe dovuto avere qualcosa in più.
Don’t look up ha sicuramente il merito di aver portato una tematica tanto cara a Leonardo Di Caprio sullo schermo, quella ambientale, ma lo fa in una maniera didascalica e stereotipata. La caratterizzazione dei personaggi è scontata: il bel professore di fisica che è tanto dentro la materia è molto fuori dal mondo, non sa come si comunica la scienza e parla con termini difficili; la dottoranda, giovane, invece, sa come si deve comunicare, o meglio, lo sa fare in maniera diretta senza troppi fronzoli tanto che, come abbiamo detto, quando sbotta diventa un meme; la Presidente degli USA, una donna che ricorda Trump, conservatrice e poco sensibile alla tematica ambientale; Peter Isherwell, il CEO di BASH, una grossa azienda di alta tecnologia, crede che le sue idee possano non soltanto cambiare il mondo, ma migliorarlo o al massimo trovarne uno nuovo, un personaggio che è un mix di Elon Musk, Mark Zuckerberg e anche di Steve Jobs. Più che personaggi sono caratteristi in grado di interpretare una sola tipologia umana. La somma di queste parti va a comporre la natura umana, se esiste.
Insomma, il film si perde in chiacchiere, si prolunga in una comicità che diventa ridicola. Apprezzo lo sforzo di trattare una tematica così importante per l’umanità e di mostrarla in forma parodistica.
Don’t look up è un concentrato di caratteristi con una trama scontata e raccontata male, con sottotrame che si intravedono e non si compiono. E soprattutto la lunghezza del film è ingiustificata, troppo lungo, un lungo-lungometraggio.
Ma dai, non c’è proprio niente che ti sia piaciuto del film? – si chiederà qualcuno. Sì, c’è qualcosa. Il finale (quello prima dei titoli di coda) è degno di un film con Leonardo Di Caprio: il tempo si dilata, si interrompe, è personale. È la trasposizione audiovisiva della concezione del tempo per Bergson.
L’altro giorno, poi, un utente su Facebook scrive: per chi non ha capito questo capolavoro di film continui a guardare il Grande Fratello. Può anche avere ragione, ma credo che tra Don’t look up e il Grande Fratello ci siano milioni di sfumature. Ma soprattutto, il film di Adam McKay, così come la maggior parte dei film, attua lo stesso processo ermeneutico del reality show: indagare il comportamento umano in una data situazione sia essa la distruzione del pianeta terra, sia essa la clausura in una casa a Roma.
Siamo così sicuri che Don’t look up sia così diverso dal Grande Fratello?
Ah, un’ultima cosa che ho apprezzato: il ruolo degli Stati Uniti d’America. A loro, classicamente, è affidato il compito di salvare il mondo e in questo caso, come in tutti gli altri casi reali, non riescono nel loro intento e trascinano tutti gli altri Stati nel baratro.
Forse il film voleva dire solo questo.