Intervista ad Andrea Miconi

Intervista ad Andrea Miconi

Speciale Meet the Docs! Film Fest 2021

Durante la proiezione serale della seconda giornata, dedicata alla gestione della pandemia, Meet the Docs ha presentato “Sieged: The Press vs. Denialism” (2020, https://www.youtube.com/watch?v=EJPaDr9o8i0), il documentario con cui Caio Cavechini ha raccontato il conflitto aperto tra il Presidente del Brasile Bolsonaro — negazionista e artefice di fake news sulla natura del Covid-19 e sulle terapie più adatte a contrastarlo — e la stampa che nel 2020 documentava quanto stava accadendo nel Paese. Un documentario senza scala di grigio che enfatizza la portata dello scontro, violento, tra il potere repressivo della politica e il giornalismo virtuoso che si fa carico dei valori della responsabilità civile.


Inevitabile, a seguito della proiezione, è stata l’osservazione che il direttore artistico del festival, Matteo Lolletti, ha indirizzato all’ospite della serata, Andrea Miconi, sociologo dei media e docente presso la IULM di Milano: in Italia, i media non pare abbiano avuto lo stesso atteggiamento…


La parola passa a Miconi: ciò che è davvero sorprendente è il fatto che il Brasile, ad oggi, ha avuto quasi 600 mila morti… ma anche l’Italia ne avuti tanti, circa 130 mila, ma qui noi non ci siamo arrabbiati. Peggio: ce la siamo presa con il vicino, con quello del piano di sotto. E a livello di comunicazione mainstream, sono stati i cittadini a essere colpevolizzati, magari per la mezz’ora di corsa che si concedevano per ragioni di salute, fisica ma soprattutto mentale. E le cose non sono migliori oggi rispetto a com’erano un anno fa: la rabbia viene ancora rivolta dai cittadini ai cittadini. Ce la prendiamo con i non vaccinati e non con la mala gestione dell’emergenza da parte della politica!
Il dibattito è continuato tra i dubbi: i tempi non sono ancora maturi per fare analisi precise. Anche la circolazione di fake news, seppur sostanziale, non può essere considerata responsabile dei comportamenti e delle dinamiche che i cittadini (e la stampa) hanno messo in atto negli ultimi mesi.


E il tanto sbandierato fact-checking sui social media, quello che Facebook ha promesso di fare sui contenuti postati sulla sua piattaforma: può esserci di aiuto in qualche modo?  

È una questione lunga, sarebbe da sviluppare su diversi piani… Tanto per capirci: rispetto a quello che i fact-checker dicono di voler fare, ciò che sappiamo — lo dice la ricerca — è che il loro operato non raggiunge l’obiettivo che vorrebbe conseguire. La questione si ricollega all’idea, ormai nota, che le persone tendono ad avvicinarsi, a preferire i contenuti su cui si trovano d’accordo, quelli che riflettono le loro stesse idee. In pratica, il fact-checking non fa cambiare idea alle persone, ma dargli credito significa dare a qualcuno il ruolo di fact-checker… e questo per me è molto sospetto, da mille punti di vista. L’idea che qualcuno possa avere in mano il potere di fare un’operazione simile mi insospettisce molto, non mi piace. Un’alternativa, più facile a dirsi che a farsi, sarebbe quella di creare un contesto [informativo, educativo] in cui si distribuiscono gli strumenti e poi ognuno se lo fa da sé, il fact-checking… che è un’operazione pericolosa quando è lasciata ad altri, tanto più pericolosa se la fanno le stesse piattaforme che hanno creato il problema. In altre parole, che Facebook, che controlla i dati del pianeta Terra, abbia il potere di controllare quello che fanno gli utenti è un fatto molto grave. Nell’anno della pandemia è successo di tutto… Questo è un esempio che ogni tanto cito: c’è un epidemiologo che si chiama Martin Kulldorff, che è un medico e insegna ad Harvard… Harvard, dico… e lui, ogni volta che dice qualcosa, si becca il bollino della comunicazione non attendibile. Ad esempio, una volta ha detto: «secondo me, vaccinare i bambini per il Covid è una sciocchezza. Bisogna vaccinare chi è a rischio». Insomma…

… il fact-checking è un’altra forma di controllo?

… sì, è una forma di controllo. È talmente evidente… ma sta nelle grandi distopie, sta nei grandi sistemi totalitari il fatto che qualcuno stabilisca delle verità. Un sistema fatto bene ti dà gli strumenti per giudicare. Il nostro è un sistema che gli strumenti non te li dà, perché non investe nella cultura, non investe nella scuola e non investe nella ricerca, e poi mette uno là a dirti cosa è vero e cosa è falso… Pericolosissimo.

In questo contesto ha ancora senso parlare di politically correct?

Il fatto è che ormai siamo arrivati a un punto di… di eccesso clamoroso. Tutto è diventato una guerra santa, qualsiasi cosa dici è sbagliata… è un fatto chiaramente molto pericoloso. Questa è una questione addirittura più delicata di quella del fact-checking, secondo me, perché qui ci sono tutte le problematiche relative a chi, in quanto minoranza, subisce. Capisco quindi il bisogno delle mille accortezze che la comunicazione deve avere… allo stesso tempo, però, mi rendo conto che è molto difficile trovare un equilibrio.

Sembra un equilibrio fatto apposta per non mettere d’accordo nessuno.

Sicuramente ha creato un clima molto conflittuale… Ci sono categorie, gruppi di persone che sono state obiettivamente penalizzate. È chiaro che l’uso del linguaggio ci pone un problema… poi però accade che, anche se sul problema siamo tutti d’accordo, alla fine non riusciamo a metterci d’accordo sulla soluzione!

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