Servant
O del servo dei servi di Dio
È difficile scrivere qualcosa di provvisto di senso su Servant, dopo quanto di cruciale Giulio Sangiorgio su FilmTv ha saputo individuare, in termini di domande da porre, verità da dire e realtà da abitare all’interno di quella che resta una delle serie più rilevanti degli ultimi anni. Perciò, probabilmente, dirò cose del tutto prive di significato.
Una premessa. Per me M. Night Shyamalan è uno degli interpreti più spaventosamente decisivi della nostra contemporaneità, (nonostante e) proprio per il suo sprezzo del ridicolo e per i suoi dispositivi frequentemente grotteschi, che credo siano più un’ipotesi istintiva dell’assurdità del reale che una conclamata deformità narrativa. Un regista centrale per l’oggi, in grado di svolgere il pop e il cinema di genere dentro e lungo uno spettro filosofico accessibile, parossistico quanto vogliamo, ma fondamentale.
Ma c’è un altro elemento che rende, per me, irrinunciabile lo spazio edificato dalle storie del regista indiano naturalizzato statunitense: il suo cattolicesimo, profondo e impulsivo, incontrollato e, per certi aspetti, punitivo. Shyamalan è, per dirla proprio con Sangiorgio, «cattolico sino al paradosso satirico» e nei suoi dispositivi drammaturgici «degenera il concetto di credere sino al parossismo». Sempre imbarazzante, sempre strabico, sempre troppo ovvio, sempre fuori posto.
Ecco, Servant è tutto questo. E, al momento, è anche una lunga serie di domande inevase.
Perché sì, Servant è il domestico, il servitore, la persona di servizio, anche se il titolo della serie non riporta l’articolo determinativo. E la serie parla in effetti di una bambinaia, Leanne, e del suo rapporto con il bambino che deve accudire, di quello con i genitori del neonato e di quello con i suoi luoghi di origine.
Ma Servant (of God) — in italiano “servo di Dio” — è anche, ci dice Wikipedia, «un titolo che la Chiesa cattolica assegna dopo la morte a persone che ritiene si siano distinte per “santità di vita”, e per le quali è stato avviato il processo canonico di beatificazione». E tutto questo c’entra molto, sia per quanto detto in premessa, sia perché il bambino di cui Leanne deve occuparsi si chiama Jericho, ossia Gerico, quella città che nel Libro di Giosuè del Vecchio Testamento viene cinta d’assedio dagli israeliti e poi da loro distrutta grazie all’aiuto di Dio, che ne fa crollare le potentissime mura al suono delle trombe dei sacerdoti.
Di più: Jericho è morto. È morto per colpa della madre Dorothy, la quale, avendo rimosso il trauma, assecondata da marito e fratello, ne culla una riproduzione, una “bambola rinata”, nella lussuosa casa di Philadelphia in cui Leanne giunge per occuparsi, fondamentalmente, di un simulacro, come iniziale e ulteriore forma di distorsione e rimozione della realtà. Però, invece, Jericho è vivo e piange, risorge e rinasce, quando Leanne si stabilisce in casa, quando Leanne se ne prende cura. E quando Leanne diviene estranea, quando Leanne non abita più lo spazio della famiglia, non cuce l’unione o ne è esclusa, Jericho torna a essere una bambola.
Allora Jericho risorge e (ri)nasce senza essere (ri)concepito, quindi cresce, vive e viene accudito da Leanne, in una ritualità permanente — per quanto accidentata — che assomiglia spesso a una comunione, e dove il cibo ha un ruolo determinante. Sean, il padre di Jericho, è infatti uno chef, e le sue creazioni (straordinarie e sempre accompagnate da vini pregiati) puntellano, in maniera molto materica, le relazioni e le narrazioni, divengono elemento di pace e di conflitto, di unione e di rifiuto, di peccato e salvezza, di gusto e perdita del gusto, in una lunga teoria di cene (ultime?) in cui nulla viene risparmiato a nessuno. Tutti i personaggi della serie hanno un rapporto molteplice e ambiguo con il cibo e con il vino, in Servant, ossia con il corpo e con il sangue, laddove la dimensione erotica delle relazioni è sotterrata da una colpa impestante, e lacerante come un esercizio di potere, quando non viene sublimata.
Ma allora la serie parla di questo? Chi è che serve Dio, in realtà? Ma chi è Dio, alla fine? È quel Lui di cui la setta a cui apparteneva Leanne continua a parlare in maniera ossessiva, mentre cerca distruttivamente di riportare Leanne «a casa», e che resta poi tra i muri, una volta introdottasi, con alcuni suoi osceni rappresentati, nel decoro borghese della famiglia Turner? O Dio è un altrove? Con chi parla Leanne mentre si flagella, chi è Jericho e di chi piange le lacrime, chi sono i Santi Minori che non possono sfidare Lui e che Leanne ha messo in discussione, scegliendo la famiglia Turner: «è questa la mia famiglia»? Chi è che serve Leanne, chi è che Leanne serve?
E c’è di più: c’è l’acqua, c’è lo scantinato, c’è la casa. L’acqua che non è purificazione, non è battesimo, non è salvezza, in Servant (anzi, in tutto il cinema di Shyamalan), ma è morte, è pericolo, è mistero. E l’acqua, nell’ultima stagione della serie, ristagna, come una colpa, nello scantinato, nelle fondamenta marcescenti del luogo in cui la stagione precedente trovava un esito sepolcrale, irredimibile. Lo scantinato, le fondamenta, di quello che è pressoché l’unico spazio, o almeno il baricentro geografico, psicologico e narrativo, di questa stagione di Servant: la casa.
Un casa che a tratti appare cangiante come l’Overlook Hotel, una casa che sembra la proiezione psicologica di qualcuno, una casa che dischiude e nasconde, che protegge ed espone, blindata e permeabile, come in un incessante processo di accettazione e di rimozione, come un «lasciami entrare» che allude alla rielaborazione o all’incapacità dell’introiezione del trauma. Le cose cambiano, se i protagonisti sono a casa o se non lo sono, se le figure del loro dolore la abitano o ne sono ospiti o ne sono escluse. Ma la casa stessa è, alla fine, quel dolore.
E la realtà, in una proiezione interiore, è sempre, almeno inizialmente, una forma di rappresentazione, così come lo è, nelle sue modalità, lo svolgimento di una Santa Messa, nel senso di, per dirla sempre con Sangiorgio, «una recita che sostituisce la realtà».
Di tutto ciò, noi attendiamo l’epifania finale, la rivelazione, o una delle rivelazioni che alcuni dei protagonisti attraversano. Eppure ci è tutto in larga parte negato, ma solo perché — sembra dirci Shyamalan — ci ostiniamo a voler comprendere, invece di sentire. Molto cattolico, molto colpevole. Allora tocca tornare all’inizio.