Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini

Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini

Ogni volta che mi (ri)trovo di fronte a Pasolini, che per me è una specie di padre desiderato e impraticabile, mi scopro incapace di coglierne interamente l’impatto, non solo in termini, sia detto in senso laico, profetici, ma anche nella sua rinnovata e ciclica attualità, per quanto parte del profondo (ed eccitante) smarrimento che provo nel leggerlo, vederlo, ascoltarlo derivi dall’intuizione, confusa, di una radicale e sostanziale inattualità del poeta nato nel quartiere Santo Stefano di Bologna nel 1922.

Se penso a come si siano intestati le sue parole le forze più retrive e reazionarie del cattolicesimo, o gli stessi che, in vita, ne auspicavano la morte; se penso a come lo usino realtà, anche partitiche, geneticamente fasciste, spesso inventando altrettanto spesso strumentalizzando il suo pensiero molteplice, mi sento confermato nell’idea di quanto sia imprescindibile, Pasolini, oggi come ieri, per interrogare il passato e il presente e il futuro, ma anche impreparato all’abisso d’amore, esaltante e impegnativo, che ancora ci offre, come un’epifania, quello che è forse il più grande intellettuale della storia contemporanea italiana.

Comizi d’amore, il documentario che Pasolini gira tra il ’63 e il ’64, in un periodo in cui, dice Sandro Petraglia, praticava, predicava e (re)inventava il film saggio (o i saggi in forma di film, secondo Serafino Murri: in quegli anni gira, infatti, anche La rabbia e Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo), non viene accolto bene, quando esce nel 1965, per altro vietato ai minori, pur contenendo “solo” parole. Ancora nel 1974 se ne parla come di un’opera essenzialmente irrilevante, e nel 1995 anche ilCastoro dedicato a Pasolini lo liquida, sostanzialmente, come un film-inchiesta — che se poi fosse una limitazione.

Eppure, vorrei dire che, visto oggi, è un documento, è un’opera disarmante e spaventosamente (in)attuale, illuminante e lacerante, simbolica e politica, inaccettabile e irriducibile, che attraversa un paese contemporaneamente stagnante e in via d’estinzione, da un lato in linea e a corredo del furore anti-borghese contenuto ne La Ricotta, di poco precedente, e dall’altro esplicita nella fotografia e nella trasformazione morfologiche di quei volti che ritroveremo, di lì a poco, nel Vangelo secondo Matteo.

Nel documentario si parla di sessualità (anche come concepimento, onore, differenza tra i sessi, prostituzione, sentimenti…), la si interroga attraverso le tante cittadine e i tanti cittadini di quella provincia vaticana che si chiama(va) Italia, e si percorrono fratture, superficialità, violenze, compassioni e ipocrisie, attraverso sia quelle che un tempo venivano definite persone comuni, provenienti da regioni diverse, sia anche personaggi del mondo della cultura.

Tra questi restano nella memoria — e riporto questi esempi perché sono l’epitome di quanto dicevo in apertura sull’opera e sul pensiero di Pasolini, o almeno del mio rapporto con esso — almeno due momenti.

Nel primo Oriana Fallaci e Camilla Cederna esibiscono il loro stereotipato compiacimento anti-borghese da borghesia illuminata, giudicando dal Lido di Venezia l’arretratezza sessuale delle donne italiane, e sfoggiando l’arroganza di un privilegio classista quanto mai attuale.

Nel secondo, un quasi ottantenne Ungaretti risponde, a Pasolini che gli aveva chiesto se esistessero la normalità e l’anormalità sessuale:

«Ogni uomo è fatto in modo diverso nella sua struttura fisica ed è fatto in modo diverso anche nella sua combinazione spirituale, no? Quindi tutti gli uomini sono a loro modo anormali, tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura, e questo sino dal primo momento: l’atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura, è un atto contro natura».

Non è un trattato sociologico, secondo me, quello di Pasolini, non vuole essere sintesi né oggettivazione. È forse più il desiderio di non credere all’esistente o di non ridursi a esso, di osare il cambiamento pur nella possibilità della sconfitta. Eppure, come di consueto, resto spiazzato: sarebbe facile — e di sicuro impreciso, anche se in parte corretto — dire che è cambiato poco dall’Italia di sessant’anni fa, ma sarebbe anche ingiusto dire che l’auspicio con cui Pasolini chiude il documentario («che al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore») abbia avuto un seguito concreto a livello politico, sociale e simbolico.

Cosa resta dunque? Resta la capacità di interrogare l’esistente e l’eco di una frase sull’Italia, che sembra riscattarsi a ogni ripetizione: «il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa», come fa dire Pasolini a Welles ne La Ricotta, senza che appaia un giudizio formulato, ma una modalità di ingaggiare il trauma del reale.

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