Game of the House of the Dragon

Game of the House of the Dragon

o della fine della fine della storia

Il Trono di spade, la serie che ha cambiato per sempre la televisione e la narrazione contemporanea espandendo ed estendo e rendendo permanente lo storytelling seriale, sta per tornare, seppure sotto le spoglie — non mentite ma meno clamorose e meno attese — di un prequel.

Difficilmente saremo di fronte allo stesso evento televisivo che, si racconta, concedeva all’allora presidente degli States, Barack Obama, la visione intera della propria imminente stagione prima che questa venisse distribuita ai comuni mortali. Lo stesso evento seriale che divenne una comunicazione ufficiale, sotto forma di meme, sia per Trump, nell’annunciare le sanzioni all’Iran, sia per il destinatario stesso di tale sanzioni, nella figura di Qasem Soleimani, capo delle Guardie della Rivoluzione. Lo stesso evento televisivo il cui epilogo, si narra, fosse custodito nella cassaforte di una banca, ché nel caso Martin fosse spirato, le trame gli sarebbero sopravvissute. Lo stesso evento seriale che è stato oggetto di letture e speculazioni quanto nessun altro prima.

Allora, prima di ragionare da opposte posizioni con il co-direttore della nostra rivista di cinema preferita, Marco Bacchi, e di dimostrargli quanto, come di consueto, lui si sbagli — in questo caso sull’impatto de Il Trono di Spade sulla contemporaneità — mi piacerebbe e troverei opportuno, alla vigilia dell’uscita di House of the Dragon, indagare e attraversare alcune di queste letture e di queste speculazioni, che fondano il proprio fascino tanto sulla dimensione geopolitica quanto su quella filosofica della serie.

Partiamo dalla prima: al centro del mondo de Il Trono di Spade c’è indubbiamente la politica, ancora più della dimensione squisitamente economica che — per quanto ovviamente rilevante — si concretizza come una funzione strutturale della politica. Da questo punto di vista qualcuno ha visto, nelle dinamiche relazionali della serie, una critica o almeno una rappresentazione feroce della crisi identitaria e di legittimità che investe la politica contemporanea, anche e soprattutto nelle democrazie occidentali.

Ma ci si può spingere oltre: le domande che pone Il Trono di Spade coinvolgono certamente la nostra capacità politica di rapportarci alle necessità di quella che è la maggior urgenza della contemporaneità, ossia quella dei rifugiati e dei migranti, e ingaggiano, di conseguenza, un rapporto anche con la nostra scelta di come, se e in che termini pensare l’altro e l’alterità (sociale, religiosa, etnica, politica…), nemica o meno. Infine, non in ultimo, da un lato premono sui confini della definizione di giustizia (sociale) e del ruolo di quest’ultima — pericoloso, scomodo, necessario — nella confusione del mondo che viviamo, e dall’altro, in maniera connessa, insistono su quanto possa essere ancora attuale e attuabile un comportamento legato e connesso alla morale e su quanto questo risulti fatalmente perdente.

Tutto ciò — in materia brutale, violenta, oscena, incestuosa, sessuale, viscerale — è direttamente connesso alla realtà coeva, come sempre accade quando il genere narrativo è trattato con sapienza: ne è una semplificazione, ne è una porta di accesso, ne è uno strumento di lettura, ne è una mappa. Al punto che, tra il serio e il faceto, un’autorevole rivista come Foreign Policy, in un articolo a firma Alyssa Rosenberg, ha tracciato una similitudine tra la serie, le sue casate e la situazione in atto nel Medio Oriente contemporaneo (per quanto datato, ché l’articolo è precedente al 2015).

In questo parallelo, i Lannister sarebbero l’Arabia Saudita, ricca e potente; gli Stark rappresenterebbero invece i movimenti d’opposizione della primavera araba; la casata dei Baratheon sarebbe gli autocrati arabi, in cerca di alleanze, mentre i Targaryen altri non incarnerebbero che gli Stati Uniti stessi, venuti da lontano e in grado di dominare il regno di Westeros anche grazie alla loro — è il caso di dirlo — potenza di fuoco. Non basta: se i Greyjoy sono i nostalgici della grandezza turco-ottomana, i Martell rappresentano l’Iran, orgogliosi della loro differenza anche etnica e, non a caso, acerrimi nemici dei Lannister e dei Tyrell, i quali incarnano Israele, con il loro regno prospero creato nelle difficoltà di Westeros. E allora i Bruti sono gli islamisti, mentre gli Estranei sono il Daesh e i Guardiani della notte rappresentano i Curdi.

Certo, è un gioco, ma è un gioco fatto da una rivista di fama mondiale sulla narrazione seriale di un prodotto culturale di massa, tanto rilevante da ampliarne e amplificarne la portata drammaturgica e, contemporaneamente, da risultare a propria volta definita dalla relazione attivata con la serie stessa.

Poi, in maniera in realtà connessa, c’è la filosofia. Poiché se è vero, come è vero, che le serie televisive sono una delle forme d’arte che maggiormente incidono, oggi, sul nostro essere umani, probabilmente questo assunto è tale perché — dato che la serialità contemporanea rappresenta la sintesi tra la forma epica del romanzo e quella drammaturgica del teatro prima e del cinema poi — le serie televisive, allora, possono e riescono a dirci qualcosa di significativo sulla nostra natura, e ci permettono di capire in maniera più profonda il mondo e la nostra esistenza. Come fa, spesso, la filosofia.

Proprio in Filosofia delle serie tv: dalla scena del crimine al trono di spade, di Enrico Terrone e Luca Bandirali, dopo aver inteso che Il Trono di Spade parla, tra le altre cose, di identità e di confini, possiamo leggere: «fissando e presidiando le proprie frontiere, un’aggregazione si munisce di un’identità e di una proprietà. I confini del territorio separano noi dagli altri (identità) e distinguono ciò che è nostro da ciò che appartiene agli altri (proprietà). In questo senso una frontiera non ha soltanto un valore spaziale e topologico, ma anche etnografico ed economico: essa non separa soltanto dei territori ma anche delle forme di vita». E ancora: «le frontiere di Trono di spade separano i cittadini di Westeros non solo dai nomadi Dothraki e dal Popolo Libero, ma da forme di vita radicalmente differenti come gli estranei». Ed è importante perché, parafrasando Derrida, «la frontiera è fin dalla sua definizione originaria un limite instabile, che si presta a essere varcato tanto dall’interno quanto dall’esterno».

Quanto allora è ancora attuale, da questo punto di vista, una riflessione sulla questione della frontiera, e quindi sull’identità, in una fase in cui, finalmente, saltano tutti i confini, non solo territoriali, non solo politici? Parecchio, visto che, sempre secondo Terrone e Bandirali, «Game of Thrones a ben vedere parla proprio di questo: gli individui sono entità troppo minuscole ed effimere perché valga la pena di occuparsi singolarmente di loro e delle loro impalpabili anime. Sono invece le aggregazioni che gli individui costituiscono agendo e interagendo che sole possono contare come protagoniste di una storia davvero meritevole di essere raccontata».

Ecco, raccontare tutto questo ci serve per una serie di motivi. Prima di tutto perché vogliamo provare a immaginare che House of the Dragon abbia lo stesso portato, la stessa (inconsapevole?) profondità del suo predecessore. Poi c interessa per poter continuare a leggere le narrazioni contemporanee di fiction come elementi che dialogano con il presente e da esso sono sì informate ma, soprattutto, attenzione attenzione!, sono in grado di incidere su esso, politicamente e filosoficamente. Infine è funzionale ad aprire un aspro dibattito su quanto Il Trono di Spade sia una delle serie più importanti della storia e su come abbia cambiato per sempre la narrazione seriale, rendendola permanente e liberandola in maniera sistemica dalla schiavitù della singola puntata, della singola stagione e della singola serie.

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