Archivio Aperto

Archivio Aperto

Arrivo a Bologna venerdì 21 ottobre. Il cielo non è il solito di Bologna, non ha quel solito colore, non è quel “cielo così bianco” di Paz. Quel giorno a Bologna il cielo è grigio, di quel grigio metallo della bobina. Di quelle bobine da 35 millimetri o quelle da 9,5 millimetri di Pathé Baby che quest’anno celebra i suoi 100 anni. 

Arrivo a Bologna venerdì 21 ottobre per assistere alle proiezioni del primo concorso ufficiale della XV edizione di Archivio Aperto, il festival di cinema d’archivio organizzato da Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia. 

Bring the archive into the world è il titolo dell’edizione di quest’anno che vuole far uscire l’archivio, renderlo vivo perché «il riuso delle immagini private nelle opere contemporanee documentarie e sperimentali è sempre di più, infatti, un atto politico oltreché un atto artistico, sempre più carico di implicazioni sociali e culturali», scrive il Direttore Artistico Paolo Simoni nel catalogo del festival. 

In città si vedono shopper, pass e magliette con il pay-off del festival che si muovono, spinte dal vento e dalle proiezioni. E allora, forse, è anche questo il senso di portare l’archivio nel mondo

Durante una delle pause tra le proiezioni mi ha colpito una scena: nella hall del Cinema Lumière un bambino osserva incuriosito un vecchio cimelio del cinema. E come non essere incuriositi. Se Gretchen in Donnie Darko avesse chiesto a me “l’invenzione che può dare maggiori benefici all’umanità” avrei risposto la macchina da presa, per la sua capacità di elaborare e rielaborare il mondo, di concettualizzarlo e di risemantizzarlo, reificando, in un certo senso, attimi che la maggior parte di noi non ha mai vissuto.

Parliamo dei film in concorso però. Il premio per il miglior lungometraggio è andato a Xaraasi Xanne/Crossing Voices di Bouba Touré e Raphaël Grisey. Il documentario racconta l’avventura di Somankidi Coura, una cooperativa agricola creata in Mali nel 1977 da lavoratori immigrati dell’Africa Occidentale che vivevano in residenze per lavoratori in Francia. Lo fa recuperando il materiale girato da Bouba Touré dagli anni settanta a oggi. 

Devo dire però che quando sono uscito dalla sala, dopo aver visto le due ore di documentario, ero abbastanza incazzato perché è un film che rimbalza dagli anni settanta a oggi senza una vera continuità e senza una vera coerenza, perché racconta una storia “semplice” complicandola con l’aggiunta di tante altre storie (forse troppe?), le quali però avrebbero avuto bisogno di approfondimento (avrei visto senza problemi tre film da 40 minuti, uno per ogni storia). 

Alla narrazione principale della creazione della cooperativa agricola si sovrappone la storia dello Sciopero del Peperoncino portato avanti dalle donne che lavorano nei campi, a questa poi si sovrappone, verso la fine, la storia della nascita della radio della comunità che la aiuta a comunicare con il mondo e a far valere le proprie istanze. È infatti su quest’ultima parte che si concentra la motivazione della giuria composta da Alina Marazzi, Courtney Stephens e Pauline de Raymond, giustificando il premio per la varietà e imponenza delle fonti d’archivio e per aver raccontato la storia della radio come strumento capace di dare spazio a coloro che sono stati stati cancellati dai media tradizionali e «per il modo in cui incanala lo spirito vivo e la dignità di coloro che hanno lottato per avere una voce in una cultura poco accogliente».

È però la parte finale della motivazione che mi ha colpito e che mi ha fatto ragionare, infatti, «i documenti visivi e sonori realizzati in presa diretta e in prima persona nel corso della sua vita da uno dei due autori, immigrato e autodidatta, portano sullo schermo una “verità” e una consapevolezza del proprio vissuto che ci interroga in maniera potente, aprendo a una prospettiva più ampia che va oltre la narrazione del film stesso, portando l’attenzione sull’importante tema dell’autorappresentazione». 

Di autorappresentazione si potrebbe parlare anche per Écoutez le battement de nos images/Listen to the beat of our images di Audrey e Maxime Jean-Baptiste. Il documentario utilizza le immagini del Centro Nazionale per gli Studi Spaziali francese girate durante gli anni della costruzione, a Korou in Guyana francese, della base spaziale francese. A causa di questa costruzione, 600 guianesi furono espropriati della loro terra e la loro città mutò completamente aspetto. Il film (che purtroppo non ha vinto nessun premio) è una presa di posizione contro il potere coloniale, una riaffermazione della propria coscienza e della propria voce. Non a caso dopo Écoutez le battement de nos images spunta il sole, come ad aprire una breccia di colore nel grigio della pellicola. 

A vincere il premio per il miglior cortometraggio è stato invece نظربازی (Nazarbazi), letteralmente Il gioco degli sguardi di Maryam Tafakory, giovane regista iraniana, che riesce a cucire spezzoni di film iraniani pre-rivoluzione con le parole di artistə iranianə (tra cui anche Forough Farrokhzad). Il film è una riflessione sull’invisibilità delle donne nella società odierna dell’Iran (tema più che attuale) e sulla perdita del contatto tra le persone. Una frase del film riassume il concetto: «viaggio al di fuori del mio corpo e dentro di me ci sono continenti che non conosco». 

Archivio Aperto si presenta come un festival in cui si respira aria di casa, nel quale i dettagli colpiscono e creano una sinergia tra le persone che vi partecipano: il pranzo viene preparato e offerto aglə ospitə, si mangia tutti assieme su dei tavoloni di legno, come si fa nelle case o nelle giornate spensierate di pic-nic. In fondo, forse, se già non lo è, Bologna sta diventando la casa del cinema e questo anche grazie a esperienze come Archivio Aperto.

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