The Devil’s Hour, la serie che si muove

The Devil’s Hour, la serie che si muove

The Devil’s Hour è una serie poco conosciuta e molto sottovalutata. Intendiamoci, non siamo dalle parti di capolavori immortali come Breaking Bad, ma neanche di robe discutibili come Fringe (sì, ho detto Fringe, con buona pace del mio valoroso co-direttore). E in un’epoca in cui il superlativo assoluto è abusato come fosse una forma di saluto e ogni prodotto vive nella polarizzazione tra capolavoro e porcata, senza sfumature mediane, ecco che una mini-serie più che onesta con alla base una gran bella idea, anche se sviluppata forse in maniera sbrigativa, diventa doppiamente interessante.

Ma The Devil’s Hour — ossia l’ora del diavolo, che, per inciso, corrisponde alle 3:33 del mattino — ci interessa anche in relazione al tema di questo mese di BILLY, perché la serie vive di altri mondi, di altre vite, di altre possibilità, di altre speranze, di altri sogni, desideri e ipotesi, e di tutto questo si nutre. Non è facile dire qualcosa di più preciso, in merito a questo, senza incorrere in spoiler clamorosi, per cui proverò solo a tracciare un movimento, il movimento che, personalmente, ho sentito durante i sei episodi della serie, episodi che, per altro, non (cor)rispondono a tutte le domande, e aprono a un futuro incerto che sarà svolto, come da poco è stato confermato, da altre due stagioni.

The Devil’s Hour è infatti una serie in movimento, rispetto alla quale, come già altre esperienze ci hanno insegnato, non è facile sentire dove si è né quando si è, ma in maniera appena diversa, rispetto al passato, prossimo e remoto, di altri esempi. Per capirci: non siamo né dalle parti di Dark né da quelle, disoneste, di Quando Dio imparò a scrivere di Oriol Paulo. Siamo contemporaneamente più vicini e più lontani, o così lontani così vicini, siamo dalle parti della vita, del desiderio e dell’ipotesi di vite diverse, siamo dalle parti della frequentazione di una vita che potrebbe essere e che contemporaneamente non è eppure esiste. Non siamo lontani da una frattura spirituale, né da una messa in discussione radicale del destino eppure, simultaneamente, siamo anche vicini alla colpa di Lucifero, il portatore di luce, e alla punizione — la tisis — per la tracotanza di aver mostrato che non solo il re ma anche dio è nudo, mentre le ali si sciolgono.

The Devil’s Hour è perciò in movimento, perché si agita sotto questo intuire e dentro le epifanie ambigue o atone dei suoi meravigliosi protagonisti, si radica nel presente, posto che il presente esista, ma frequenta il passato come possibilità e ipotizza il futuro come vuoto, rivendicando la disperazione della (ri)nascita. Solo così, con parole che mi rendo conto possano suonare piuttosto prive di senso, credo di poter rendere il senso, appunto, del fascino discreto di questa serie.

Perché è dopo, che tutto torna chiaro. È un po’ come quando Peter Capaldi, uno dei protagonisti della serie, risponde alle persone che gli chiedono perché non abbia impedito l’11 settembre:

– Mi creda non posso impedire l’11 settembre. Non ancora. Ma ho impedito il 12 luglio.

– Perché, che è successo?

– Appunto.

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