Le otto montagne
I hear the old folks when they say
Daniel Norgren – As Long as We Last
It’s funny how time slips away
I here the old folks when they say
Days getting shorter every day
Come here now
You better come fast
Quella del tempo è una presenza ricorrente ne Le otto montagne. È nei versi del brano che introduce queste righe, scritto nel 2015 da Daniel Norgren e diventato poi la colonna sonora del film, il tempo è anche la forza motrice della storia di Bruno e Pietro, la cui amicizia è protagonista della pellicola in 4:3 diretta da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e tratta dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti.
UN FILM SUI RAPPORTI UMANI
Un legame, quello di Bruno e Pietro, nato tra i versanti della Val d’Ayas, nel paesino valdostano di Grana nell’estate dei loro 8 anni, quando Pietro e la sua famiglia raggiungono la loro casa di montagna per cercare una tregua estiva e dai ritmi frenetici di una Torino afosa. Due mondi diversi, i loro, che si incontrano e si mischiano nel campo neutrale dell’infanzia, fatto di rincorse tra i pascoli, mucche da mungere ed escursioni in alta quota, proprio lì dove germoglierà il legame granitico raccontato durante tutto il film.
L’amicizia di Bruno (Alessandro Borghi) e Pietro (Luca Marinelli), essenziale nei dialoghi ma corposa nei sentimenti, verrà coltivata di estate in estate sino a una brusca interruzione nell’adolescenza, quando i protagonisti verranno assorbiti dalle loro rispettive vite, per poi riprendere anni dopo, con la morte del padre di Pietro che darà loro un pretesto per ricongiungersi e un'”eredità” da ricostruire assieme.
Nella storia emergono dunque – forse troppo fugacemente – anche i legami complessi tra padri e figli che faticano a collidere, uno snodo chiave che dice molto sulla voglia di Bruno e di Pietro di ridefinire il proprio rapporto con le origini, di costruire il proprio futuro tra la Val d’Ayas e il Nepal.
Nel mezzo c’è tutto ciò che il tempo riserva a ognunə di noi: l’incertezza del futuro, la labilità del lavoro e dei rapporti umani che si dilatano, gli amori e i figliə, i ritmi di vita che cambiano così come le priorità, la costruzione del proprio io.
UN ROMANZO DI FORMAZIONE, INTIMISTICO
A Le otto montagne, dunque, non servono dialoghi prolissi per aiutare il pubblico a rivedersi nella storia di Bruno e Pietro, e al pubblico non serve essere habitué della montagna per sentirsi parte di quel racconto.
C’è dell’universalità nel legame che unisce i due protagonisti e che ci accomuna tuttə: la voglia di sigillare l’intensità degli affetti e ogni loro declinazione per conservarne l’autenticità iniziale, così come la purezza di un’amicizia decennale che si rivelerà un porto sicuro, coltivata nel rituale dell’incontro estivo. Un rituale come quello di Bruno e Pietro portato avanti nel tempo, nel rifugio ricostruito insieme a mani nude in Val d’Ayas, metafora dell’affetto che diviene materia e si radica al suolo; un rituale che tuttə noi proviamo a celebrare con quei legami che ci appartengono in modo viscerale.
E ancora una volta è il tempo che dà ritmo alla metamorfosi dei nostri legami. Il tempo del mondo adulto porta con sé il bagaglio di incognite con cui fare i conti: riscoprire se stessi e le proprie priorità a volte non trattabili, sacrificare alcuni affetti e rincorrerne altri, attraversare il mondo ma senza ignorare il richiamo della propria terra d’origine, fare i conti con alcune idealizzazioni che s’infrangono con la realtà e con una natura che non perdona.
Le otto montagne ci racconta tutti quegli ostacoli attorno ai quali ruotano e spesso inciampano i nostri legami, senza però edulcorare le difficoltà, le incomprensioni e le debolezze. Tutto ciò è tangibile nel legame di Bruno e Pietro, un rapporto intimo che ci introduce a una grammatica dei sentimenti forte e impermeabile alle distanze, agli anni.
É qui che Le otto montagne (libro e trasposizione cinematografica) rivela il suo essere un romanzo di formazione.
Complice sicuramente il duo Borghi – Marinelli che funziona bene a tal punto da non riuscire a immaginare un’alternativa per le due parti, nonostante il marcato accento valdostano che nel caso di Bruno (Alessandro Borghi) risulta a tratti forzato.
Curiosa la scelta del formato 4:3, ma non per questo da bocciare, che va a smorzare l’effetto dei campi larghi sulle montagne, accentuando il senso di altezza e di vertigine con un orizzonte ribassato, come notato saggiamente da chi mi ha accompagnata in questo viaggio introspettivo di due ore e mezza.
A posteriori, il 4:3 sembra quasi una formula voluta per mantenere saldi gli equilibri tra narrazione e paesaggio lì dove le Alpi, con la loro vastità e imponenza, avrebbero rischiato di fare ombra su tutto il resto.
In ultimo, in un film dove la fotografia restituisce alla perfezione la freschezza e la purezza della montagna, anche la musica riesce perfettamente nella sua funzione. La scelta di Daniel Norgren per la colonna sonora è ampiamente promossa. Il sound e i testi dei brani dell’album Alabursy (2015) abbracciano il film risaltandone i contorni con delicatezza, contribuendo a costruire quell’atmosfera intima e introspettiva necessaria a vivere la storia con corpo e mente dall’inizio alla fine. La voce del cantautore svedese, così come l’inaspettata irruzione di Quando tornerai dall’estero (Le Luci della Centrale Elettrica) cantata da Pietro con gli amici al tavolo di un bar in cui appare lo stesso Cognetti, dicono molto di un film contemporaneo nel linguaggio e nelle emozioni raccontate, dove la musica sembra essergli cucita addosso con una cura meticolosa.
Con Le otto montagne riscopriamo la bellezza del parlare di rapporti umani attraverso il linguaggio del Cinema, un linguaggio né frettoloso né prolisso, ma soprattutto capiamo di poterne parlare senza soffermarci su rigide definizioni che farebbero perdere di vista l’essenza dei sentimenti distribuiti nel tempo e temprati dalla distanza.
Insomma, un film da vedere e un libro da leggere. Una storia da conoscere anche se, probabilmente e in qualche modo, ci riguarda già.