Il Gioco di Silvia
Almeno una volta nella vita, è successo probabilmente a tutte di sentirsi chiamare “puttana”, “troia”, “cagna”, “zoccola”. Probabilmente non riusciamo a ricordarle tutte, non ricordiamo chi ci ha apostrofato così, quando è successo la prima volta o quale ne fosse il motivo. A me, ad esempio, credo sia successo per la prima volta a 13 o 14 anni, solo perché mia cugina aveva flirtato con dei ragazzi in paese. Io neanche c’ero, ma per associazione ero puttana anch’io. L’ultima volta, invece, qualche settimana fa, perché mi sono permessa di rispondere a un tizio molesto per strada.
Termini del genere, nel linguaggio comune, infatti, non indicano soltanto una persona che offre prestazioni sessuali, ma sono un insulto, un’imprecazione, un’offesa, perché essere una puttana è qualcosa che non si augura a nessuna.
Come scrive Giulia Zollino nel suo “Sex work is work” «Lo stigma della puttana è un preciso dispositivo di controllo che non disciplina unicamente la sfera sessuale, bensì la condotta femminile nel suo complesso. È uno strumento sanzionatore pronto a colpirci quando attraversiamo il confine, quando mettiamo in discussione la gerarchia su cui si struttura il sistema patriarcale, quando ci appropriamo di ruoli, atteggiamenti, qualità che non dovremmo avere».
Puttana è la donna o la soggettività femminile che alza la voce, ricopre ruoli di potere, vuole godere e non reprimere i suoi desideri. Il patriarcato e la morale cattolica vogliono, invece, le donne silenziose, pudiche, sante.
L’aspetto della vita umana che, forse più di tutti, è schiacciato dal peso di questa morale è la sessualità, soprattutto femminile. Le donne non possono godere del sesso, è la sessualità maschile a dover essere esplosiva, mentre quella femminile deve essere passiva. La puttana fa paura, è una che rompe gli schemi, che non accetta la passività.
Al Meet the Docs, quest’anno si parla di “fine del mondo”, intesa, come scrive il direttore, «come analisi e riflessione su mondi personali, intimi, politici e geopolitici, sociali, culturali e narrativi che intrattengono un dialogo con la possibilità di radicali e definitive modificazioni. Di questo raccontano le storie che abbiamo scelto di proporre, con la volontà di partecipare di questa fine, ossia di permettere al reale di disordinare il nostro ordine e di perturbare la nostra pace».
È in questo contesto che si parla di sex work, per continuare a tenere accesi i riflettori sulle scelte e soprattutto sui diritti di lavoratrici e lavoratori che ogni giorno se li vedono negati e che sono invisibili agli occhi della Legge.
Un film come “Il gioco di Silvia” permette di entrare nella quotidianità di una lavoratrice sessuale di Bologna, che apre le porte della sua casa e della sua vita privata ai registi, semplicemente raccontando la sua storia, piena, come tante altre storie, di pregiudizi, stigmi sociali e timori, ma anche di successi, traguardi e sogni realizzati.
Il racconto della vita e delle scelte di Silvia non si configura però come un atto politico o una rivendicazione sociale, ma semplicemente come una vetrina su un mondo e su una realtà che ha le stesse caratteristiche di tante altre realtà e assomiglia al racconto di tante altre vite, di tante altre persone, anche di quelle che si definiscono “normali” e pensano di essere tanto lontane da queste storie. La storia di Silvia racconta semplicemente che la vita è fatta di situazioni, di scelte, lavorative e non, che non sono sufficienti a definirci.
Parlare di sex work e farlo in modi diversi dalla narrazione mediatica predominante, che vuole la donna una vittima da salvare, ci ricorda che non siamo solo quello che facciamo per vivere e che no, la nostra dignità non è nella nostra vagina.