Sex Education: finire prima che sia troppo tardi

Sex Education: finire prima che sia troppo tardi

Sempre siano lodate le serie tv che scelgono di non puntare all’infinito. Ce lo ha insegnato The Walking Dead e continua a insegnarcelo episodio dopo episodio Grey’s Anatomy, che si appresta a fare il grande salto in una stagione che ha il 2 come prima cifra: prendere una serie tv e farla andare troppo per le lunghe solo perché estremamente redditizio è un’arma a doppio taglio. A farsi male sono tendenzialmente sia gli spettatori più fedeli, quelli che vedono sotto i propri occhi lo snaturarsi di prodotti che in passato hanno avuto tanto da dire e lo hanno fatto bene, sia le serie tv stesse, private ormai della loro più profonda e originaria essenza. Per fortuna così non è andata per Sex Education, che ha definitivamente chiuso i battenti con la quarta stagione distribuita da Netflix a settembre. Un saluto dolceamaro quello con la serie, baluardo nel 2019 di un nuovo modo di fare serialità televisiva adolescenziale e nel tempo diventata sempre più una fotocopia di se stessa. Eppure, di grazia, terminata prima che fosse davvero troppo tardi.

Il concetto di finale porta con sé per sua stessa essenza la possibilità che spesso e volentieri si trasforma in necessità di fare un bilancio di ciò che è appena terminato. In questo caso il mio personale bilancio di Sex Education è positivo, anche se poche, pochissime, forse una sola stagione in più sarebbe bastata per cambiare le carte in tavola. La prima stagione è stata a suo tempo una vera e propria ventata di aria fresca e pulita in una serialità che troppo spesso rappresentava l’adolescenza nella sua versione più stereotipata. Con l’arrivo di Otis Milburn sui nostri schermi però sono cambiate tante cose nel racconto dei problemi dei più giovani: si parla di sesso, della difficoltà di masturbarsi o dei primi inesperti tentativi di intimità condivisa, ma si parla anche di quanto sia complicato misurarsi con le proprie stesse aspettative, affrontare un trauma, essere genitori. Lo si fa in modo aperto e inclusivo, senza taboo, senza vergogna, e con il chiaro obiettivo di far recepire ai principali spettatori della serie – gli adolescenti, appunto – un semplice messaggio: tutto quello che vi sta succedendo, tutto ciò che state provando o che vi spaventa, è normale.

Tra i principali vantaggi della prima ora di Sex Education, probabilmente tra gli elementi che maggiormente permettevano di apprezzare la serie e di rivedersi nelle situazioni raccontate, c’era la caratterizzazione dei personaggi. Puntata dopo puntata siamo entrati dritti nella vita non soltanto del protagonista ma anche di tutti coloro che in qualche modo gli giravano intorno. E allora ecco che scopriamo l’infanzia difficile di Maeve, che facciamo capolino nell’intimità più profonda di Aimee, che conosciamo le fantasie e le paure di Lily o la vita dietro la facciata di Ruby. Conosciamo bene tutti, ne guardiamo le debolezze oltre che i punti di forza e questo ci permette di metterci maggiormente in contatto con loro, anche con quella preside acida della terza stagione ben presto dimenticata ma inaspettatamente anche in parte compresa nei suoi comportamenti detestabili.

Conosciamo, o meglio, conoscevamo.

Non si può infatti dire che nel corso degli anni Sex Education sia riuscita a mantenere vivo questo suo pregio, e l’ultima stagione ne è la prova lampante. La possibilità, gentilmente concessa dal cambiamento scolastico, di introdurre diversi personaggi nuovi nella trama non si è concretizzata nello sviluppo di storyline capaci di mantenere davvero alta l’attenzione del pubblico. Sarà che la necessità di mettere un punto alle trame dei personaggi già conosciuti ha richiesto tempo; sarà che i personaggi nuovi non sono stati all’altezza delle aspettative, ma praticamente nessuna tra le new entry è riuscita a dare quel valore aggiunto che ogni personaggio della prima ora a suo modo apportava. Ma se i personaggi non piacciono, il rischio è che le tematiche che questi portano avanti vengano tralasciate a causa della mancanza di interesse verso chi le incarna, rischio che nel mio caso specifico si è ampiamente concretizzato.

Ciò non toglie che comunque nuovi temi interessanti e non ancora trattati siano stati tirati fuori dal cilindro durante la quarta stagione, a riprova del fatto che Sex Education avesse ancora qualcosa da dire. Ma come? Anche in questo caso con risultati a volte positivi, a volte meno. La volontà di affrontare il sesso da punti di vista nuovi come quelli delle persone asessuali e transgender si è scontrata – ecco che mi ripeto – con la carenza di empatia nei confronti dei suddetti personaggi. D’altra parte, però, le tematiche affidate alle storyline di Maeve e Jean sono state invece rappresentative di quanto una serie che parla di sesso fin dal titolo possa avere anche molto altro da raccontare.

Spoiler alert sulla trama della quarta stagione di Sex Education, da non leggere assolutamente in caso di mancata visione della serie

Maeve si ritrova ancora una volta ad agire come l’adulta che è dovuta diventare troppo presto quando sua madre muore di overdose. Il dolore per la perdita di un genitore si fonde in questo caso con il sentimento indefinito – e probabilmente indefinibile da chi non lo ha mai provato – di dover dire addio a una persona che con il suo apporto nella vita della figlia è stata così contraddittoria. Tanto amore e tanto odio, la nostalgia dei pochi bei ricordi e il dolore per tutti quelli che non le ha dato la possibilità di vivere si confondono in una Maeve spaventata dal futuro ma anche desiderosa di allontanarsi dal passato.

Jean invece, già madre di Otis, deve affrontare di nuovo il viaggio complesso e spaventoso che è la genitorialità di un bambino, soprattutto quando non si ha qualcuno con cui condividerla. Ed ecco quindi che la donna che abbiamo visto tanto forte e decisa si trasforma in una persona più insicura, impaurita, preda di una depressione post-partum che non le permette di vedere se stessa come una buona madre né di vivere i momenti di gioia che la maternità porta con sé.

In entrambi i casi ritroviamo sentimenti contrastanti, quelli più intensi e veri.

E ritroviamo anche sia in Maeve sia in Jean la tendenza a identificare un colpevole delle proprie situazioni di vita, siano queste di dolore o di ipotetico sollievo. Un colpevole che ritrovano proprio in se stesse. La prima è preda del senso di colpa per essere la figlia con un obiettivo di lungo termine, quella che sta riuscendo nell’intento di cominciare di nuovo, di cominciare altrove. La seconda, invece, dubita delle sue capacità materne dandosi la colpa di continui errori: quelli con un Otis ormai quasi adulto e quelli con Joy, una bambina appena venuta al mondo. In entrambi i casi Jean e Maeve si sentono responsabili di qualcosa che le schiaccia, le rimpicciolisce e che non le permette di andare avanti con le proprie vite approfittando di ciò che hanno da offrire.

Cosa le riserva il futuro non ci è dato saperlo, ma noi le vediamo sul finale di Sex Education realizzare il primo passo verso una nuova fase delle loro vite, una fase più aperta, viva e consapevole. È così, tra partenze e ritorni, tra nuove e vecchie consapevolezze, che diciamo addio a una serie rivoluzionaria. Lo facciamo con ben chiara nella testa l’idea che la strada intrapresa ultimamente più quella giusta, ma anche con la gioia nel cuore di chi ha visto una bella serie spingersi fin quasi sull’orlo del precipizio, senza però cadere. E allora sempre siano lodate le serie che scelgono di non puntare all’infinito: a volte mettere un punto è l’unico modo per non perdersi.

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