Goonies never say die

Goonies never say die

È interessante come certi film entrino a far parte di una determinata cultura musicale e come a capo di un genere musicale possa esserci un film. Quando iniziai a suonare punk rock avevo sedici anni, mi inserii in una scena dove tutti indossavamo All Star e chiodo e tutti avevamo visto Ritorno al futuro e I Goonies. Questi furono fra i primi dvd che comprai, parti delle mie radici. 
«Books, records, films – these things matter.» diceva Rob Gordon in High Fidelity.

Mi buttai a capofitto in un mondo nel quale il fatto che fossi letteralmente una sfigata che veniva bullizzata a scuola non aveva importanza, anzi era un valore aggiunto, il fatto di essere un goony era affascinante. La visione di questi film mostrava un modo di pensare e di concepire il perdente più ampio e collettivo, l’ambito punk rock garantiva un ambiente dove potevi urlare il tuo disagio, dove non era necessario eccellere ma bastavano tre accordi e qualcosa da dirci sopra. 
Eravamo tutti degli outsiders che ascoltavano i Ramones. 
All’interno di questo scenario ho avuto anche io il mio gruppo di goonies con i quali ho suonato per 13 anni e all’epoca guardai il film di Richard Donner con un moto di rivincita, mi colpì profondamente. Perché?

Oregon, è estate nella cittadina di Astoria (So long, Astoria – The Ataris), i Goonies sono un gruppo di amici che stanno per essere sfrattati dalle loro case nel quartiere Goon Docks, gli imprenditori infatti vogliono radere al suolo l’area per costruirci un campo da golf. Sembra tutto ormai perso finché i ragazzi non trovano nella soffitta di casa di Mikey un’antica mappa del tesoro. Si avventurano così alla ricerca del bottino che potrebbe salvare le case del loro quartiere dove sono nati e cresciuti.

Amicizia e voglia di riscatto, il senso di stupore e meraviglia, l’avventura, il coraggio dei protagonisti che sono fondamentalmente dei loosers ma che insieme sono invincibili. Indiana Jones di Spielberg, le avventure grafiche della LucasArts, Monkey Island e Grim FandangoStand by me di Reiner e It di Tommy Lee Wallace che io guardai da bambina nella tv in bianco e nero della cucina che rimaneva accesa solo grazie al bastoncino di legno del Magnum conficcato nel tasto di accensione che ne impediva lo spegnimento. 
Sotto la facciata ironica e leggera de I Goonies si cela un film profondo che a tratti si spoglia della sua comicità e lascia che si mostri il suo lato emotivo. Il ragionare per insieme e l’esclusione dell’individualismo, ogni personaggio è ricco di personalità e le sue conoscenze vengono messe a disposizione del gruppo per uno scopo comune condiviso con le stesse dinamiche che effettivamente avvengono all’interno di una band. «Goonies never say die» grida Mikey rendendoci vulnerabili, ricordandoci l’inconsapevolezza della perdita in una fase della vita dove la parola morte non esiste e la speranza è alta, la fiducia che alla fine ogni cosa va al posto giusto, la gioventù e l’età dell’innocenza.

Rivedere questo film oggi a quasi vent’anni dalla prima volta mi ha colto di un sentimentalismo incontrollabile. La prima volta ero piena di rabbia e di frustrazione, volevo emanciparmi e redimermi, cercavo speranza in una condizione di esclusione sociale. Quest’ultima invece sono stata meravigliata da una terribile nostalgia che credo sia la stessa che unisce tutte le generazioni affezionate a questo cult movie e al ricordo che esso risveglia, in una lunghissima catena di Petite Madeleine Proustiana.

I Goonies è un film eterno, senza età, supera gli ostacoli generazionali e di differenza unendo tutti i perdenti e i dissimili.
Ci ricorda la ricerca del riscatto e di quanto ci siamo sentiti sbagliati alle radici delle nostre origini. 
Sono ancora io la ragazza che prendevano in giro a scuola e “con orgoglio mi dichiaro un Goony”.

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