L’Ultimo dei Ferrari.
Regia 4
Soggetto e sceneggiatura 4
Fotografia 4
Cast 5
Colonna sonora 3

Un tramonto cala sulle pendici delle montagne, è il 1757 e all’orizzonte le ultime parole di Chingachgook si affrancano dal funerale del suo unico figlio, Uncas, rimanendo così l’ultimo dei Mohicani, mentre i titoli di coda seguono la panoramica finale sull’orizzonte. Duecento anni dopo un’alba del 1957 solleva le prime luci sulle colline di Castelvetro, ..

Summary 4.0 favoloso

L’Ultimo dei Ferrari.

Un tramonto cala sulle pendici delle montagne, è il 1757 e all’orizzonte le ultime parole di Chingachgook si affrancano dal funerale del suo unico figlio, Uncas, rimanendo così l’ultimo dei Mohicani, mentre i titoli di coda seguono la panoramica finale sull’orizzonte. Duecento anni dopo un’alba del 1957 solleva le prime luci sulle colline di Castelvetro, svelando lentamente alcune vedute della provincia modenese: Enzo Ferrari si risveglia a casa della sua amante Lina. Silenziosamente si ritira dal casolare, lasciando dormire lei e il loro figlio, Piero, che non può portare il suo cognome perché avuto al di fuori del matrimonio con Laura. Enzo si reca come ogni mattina al cimitero dove è sepolto il suo unico figlio avuto con sua moglie, si chiama Dino, morto prematuramente l’anno precedente, ed Enzo Ferrari, come Chingachgook, vorrebbe solo rivedere il suo volto.

Tra l’epilogo di L’Ultimo dei Mohicani e il prologo del nuovo film di Michael Mann c’è un eco inevitabile, del resto la sceneggiatura di Ferrari firmata da Troy Kennedy Martin accende la curiosità del regista già nei primi anni Novanta, quando esce la celebre pellicola con Daniel Day Lewis che corre nelle foreste americane sotto lo sguardo di Mann, come i piloti di Maranello sotto gli occhi(ali da sole) del loro fautore pronto a tutto, costi quel che costi, anche a sacrificare la loro vita, per riscattare l’eredità della Scuderia Ferrari e risollevare l’impresa di lui e sua moglie dal rischio della bancarotta e del matrimonio.

Nell’arco di qualche mese del 1957 si svolge il tempo del racconto di Ferrari, film con cui Mann ritorna a due generi, il biopic e il film sportivo (Alì), finendo anche questa volta per eluderli entrambi. Nessuna ascesa, nessuna parabola di ambizione, e (forse) nessuna caduta: Ferrari è già fatto, condannato e contenuto dentro quella piccola cornice temporale, necessaria quanto basta per scrutarne la complessità di un’epopea famigliare, la sua e quella delle due donne che stanno al suo fianco. Laura e Lina sono “madri parallele”, vere protagoniste nel contrappunto al perfezionismo imprenditoriale di Enzo: Laura, come Al Pacino in Heat, è mangiata da una sfida interiore che la guida alle porte della sua villain, Lina, l’amante del suo unico marito, la madre di un figlio non suo. Come in ogni film di Mann, Laura e Lina animano la principale coppia di opposti di questa tragedia, ne scandiscono il respiro melodrammatico.

È contro l’assenza di qualcuno, o qualcosa, che si ritrova la famiglia di Enzo, la sua stessa madre scherza sul figlio che le è rimasto vivo per sbaglio. A ogni assenza corrisponde un gioco di sguardi che alimenta l’intimo fascino di un sentore di morte: dal lunghissimo primo piano iniziale su Penelope Cruz fino al rimbalzo continuo di sguardi al teatro dell’Opera, Lina che scruta nella platea l’uomo della sua vita, Laura che guarda altrove, all’unica dimensione del passato in cui la macchina a mano di Mann può fluttuare libera prima di riconciliarsi col precipizio dell’azione sulle piste.

Una corsa verso una morte inesorabile: il fantasma di un fronte di guerra riappare sotto le vesti di un’altra macchina, non di un’artiglieria ma della velocità. Una velocità contrastata dal suo antieroe, un uomo d’azione puramente Manniano ma ormai fuori tempo, un ex pilota che conosce e osserva perfettamente il codice dell’automobile, un esecutore che però non passa più all’azione, un perfetto “nerd” sessant’anni prima dell’hacker di Blackhat, dove i circuiti della Mille Miglia anticipano le visioni virtuali dei circuiti informatici, dove lo straniamento tra il digitale e l’epoca analogica di Nemico Pubblico svanisce per poi rientrare con una computer grafica non smagliante, ma indifferente, nella scena più raggelante del film. Dentro tutto questo c’è un grandiosa orchestra di grandi attori e attrici: a partire da un Adam Driver perfetto nel contenimento delle caratteristiche menzionate sopra, contese dal dolore vorace di una Penelope Cruz ormai eterna, dove il melting pot di accenti americani, inglesi e spagnoli in un film italiano dalla costituzione statunitense, sfaccettata e ironica, viene illuminato dalla bellissima fotografia di Erik Messerschmidt. 

Ferrari è anche un film sbilanciato e imperfetto, non sempre compie i passi giusti ma quando li fa c’è sempre un cuore vorace, una ricerca appassionata di quel punto macchina che stravolga la verifica incerta dell’umano, dove il tempo rende ancora una volta anomala l’etichetta del biopic, che è solo un mezzo per ritrovarsi altrove, nella vittoria e nel dolore.

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