Al di là del muro: La Zona d’Interesse
L’anno scorso alcuni autori cinematografici si sono cimentati nell’impresa di raccontare diverse manifestazioni del Male che hanno attraversato il secolo scorso fino ai giorni nostri: come la mente dietro a ordigni di distruzione e risoluzione dei conflitti mondiali (Oppenheimer), oppure come inganno omicida dietro al progetto capitalista dell’uomo bianco (Killers of the flower moon). Siamo in terra americana, o meglio, dei nativi americani in entrambi i casi, da Los Alamos all’Osage County. Sono film in cui il primo piano ci ha proiettato davanti ai volti e agli occhi di identità disumane, scese a patti più o meno con i loro gesti genocidi su popolazioni civili, al di là dell’Oceano Pacifico o in terra americana.
Nell’ultimo e ambizioso film di Jonathan Glazer, La Zona d’interesse, non ci sono primi piani insistiti sul volto di chi ha perpetrato il male, ma non per questo il film è meno affascinante nel confrontarsi con l’ingombrante fardello della Shoah, il genocidio che, rispetto ai due esempi statunitensi citati sopra, è stato quello più narrato ed esplorato negli ultimi 80 anni di cinema, quello che si è sedimentato maggiormente nella nostra memoria culturale, collettiva e sociale.
Come ci si può porre ancora oggi nei confronti del trauma che più ha segnato l’immaginario del Novecento?
Glazer prova a farlo trovando ispirazione nel romanzo omonimo di Martin Amis del 2014, ma spogliando la narrazione di qualsiasi qualità romanzesca e melodrammatica. Nel film la famiglia protagonista recupera il vero cognome “storico” del protagonista, quello di Rudolph Höss. Forse non tutti sanno che (come il sottoscritto) oltre le mura che impedivano i sogni delle vittime del campo, c’era una villetta accogliente dove la “splendida” famiglia di Höss trascorreva beata le sue giornate. C’era anche un fiume dove usavano recarsi per godersi il sole di una bella giornata, liberi in mezzo al panorama verde su cui si apre la prima inquadratura del film. Glazer ci proietta in una cornice edenica in cui vive la famiglia dello stimato nazista di Auschwitz, ammirato per l’efficienza della sua direzione, per la coordinazione delle masse di prigionieri stipate nei treni che li raccoglievano in giro per l’Europa.
Di tutto questo però il pubblico (si presume) sa già tutto e ha già visto tutto, a patto che il suo unico riferimento sul Nazismo non sia il film europeo di Quentin Tarantino. Non ci è dato vedere l’orrore al di là del muro, possiamo solo sentirlo disperso nell’atmosfera di tanti altri rumori, oppure la sua disumanità ci è dato (intra)vederla nei quadretti di “umana” ordinarietà della famiglia Höss. Seppur lontano dall’ucronia tarantiniana, Glazer azzarda un’audace e ulteriore ipotesi di sguardo che ci invita a meditare sull’indifferenza del Male: il suo “What If” reimmagina la vita della famiglia come se fosse filmata dentro un Grande Fratello (parole del regista), un osservatore impassibile fuori e dentro le mura di una bellissima casa.
Così l’occhio del regista ingabbia la nostra consapevolezza con un dispositivo cinematografico dove il Male si fa asimmetrico, sbirciato, indotto su un piano subliminale, mai troppo ravvicinato, mai così nuovamente sconvolgente. Se non ci è possibile empatizzare con la famiglia di Höss, non ci resta che sperimentare una scomoda ma necessaria prossimità mentre i punti macchina si ripetono nella loro geometria ossessiva. Il risultato è un efficace esperimento in cui finzione e documentario si ingannano lungo un’indagine estetica che avevamo già potuto intuire nel precedente Under the skin. Il film procede inesorabile dentro le sue curatissime scenografie, ricostruite con cura filologica, mostrandoci i confronti coniugali tra Höss e sua moglie Hedwig (ancora una bravissima Sandra Hüller), dalla camera da letto fino alle stanze del potere dove si decidono le sorti della carriera di Höss, e con essa quella dei milioni di ebrei destinati ai campi di stermino. Alla resa visiva e fotografica degli spazi (quelli visti, quelli negati, anche quelli negativizzati nei momenti più onirici e sperimentali), si fa largo un centrifugo lavoro sul suono, dove all’umanità casalinga si insinuano schegge sonore di spari, abbai, ordini urlati al di là del muro, i prigionieri ebrei compaiono in istanti fugaci, ma la loro presenza è più agghiacciante solo quando allusa, disumanizzata in battute di dialogo spiazzanti: “Forse di là si trova la donna a cui facevo le pulizie”.
Viene in mente un passaggio di Niente muore mai, illuminante saggio dello scrittore Viet Thanh Nguyen sulla memoria della guerra, in quel caso, del Vietnam e non solo: “secondo l’etica del riconoscimento l’altro è umano e disumano, esattamente come noi. Nel momento in cui ammettiamo la nostra capacità di fare del male, possiamo riconciliarci con chi crediamo l’abbia fatto a noi. Un’etica di questo genere potrebbe essere un antidoto più efficace a guerre e conflitti, rispetto a quella di ricordare gli altri: una volta riconosciuto che siamo in grado di nuocere, forse saremmo meno pronti alla guerra, e più aperti alla riconciliazione, dopo.”
Opere come Killers of the flower moon, Oppenheimer e, in modo ancora più radicale, quello di Glazer esaminano questa proprietà disumana della nostra memoria, facendoci vivere affianco ai carnefici. Osservandoli (e ascoltandoli) si aprono cicatrici nel nostro inconscio culturale, rendendoci spettatori complici di un trauma storico e persistente, come testimoniano entrambi i film con le loro ellissi temporali fino ai giorni nostri: la cerimonia finale per gli Osage prende la forma di un occhio, mentre Rudolph Höss ci osserva dallo spioncino sullo spazio museale che è diventato oggi Auschwtiz, non luogo del turismo di massa già osservato da Sergej Loznica alcuni fa nel suo documentario Austerlitz.
(Forse) La Zona d’interesse è l’inevitabile capitolazione nuova e finale su un nuovo modo di porci e guardare dentro le maglie della nostra disumanità, dall’Act of Killing di Joshua Oppenheimer alla crescente offerta di murderabilia che ha saziato il consumo culturale di serie crime negli ultimi anni. L’orrore fuoricampo non è mai stato così vicino e (im)percettibile, inascoltabile al di là dell’immagine di un muro che nasconde alla nostra vista quello che già sappiamo e non dovremmo mai dimenticare, soprattutto oggi quando vediamo tutto e troppo in diretta quello che purtroppo succede ancora, ieri come oggi, domani.