Una questione privata. Furiosa: A Mad Max Saga.
Regia 5
Soggetto e sceneggiatura 4
Fotografia 4
Cast 5
Colonna sonora 5

As the world falls around us. How must we brave it’s cruelties?Uomo Storia Una nuova speranza. Si potrebbe sottotitolare così, prendendo in prestito da un’altra importante saga cinematografica a lei coetanea, con la quale la prima trilogia di Mad Max, creata e diretta dal genio di George Miller, ha condiviso un impatto fondamentale nell’immaginario cinematografico ..

Summary 4.6 favoloso

Una questione privata. Furiosa: A Mad Max Saga.

As the world falls around us. How must we brave it’s cruelties?
Uomo Storia

Una nuova speranza. Si potrebbe sottotitolare così, prendendo in prestito da un’altra importante saga cinematografica a lei coetanea, con la quale la prima trilogia di Mad Max, creata e diretta dal genio di George Miller, ha condiviso un impatto fondamentale nell’immaginario cinematografico dagli anni ottanta in poi. E poi il primo grande ritorno alle sue Terre Desolate, oltre trent’anni dopo con il rivoluzionario Mad Max Fury Road, già nove anni fa quando fu presentato al Festival di Cannes insieme al Max di Tom Hardy e alla “prima” Furiosa di Charlize Theron, eroina misteriosa dal passato solamente accennato, eppure talmente denso di materiale che George Miller, da grande narratore di storie e personaggi qual è, aveva già tutto pronto casomai ci fosse stato il desiderio di tornare lì, alle Terre Desolate, a Furiosa, alla scelta di rischiare tutto, imbarcare le concubine di Immortan Joe e fuggire verso l’isola verde che non c’è.

Nove anni fa e ora Furiosa è finalmente l’eroina eponima di questo A Mad Max saga, anche questa volta presentato (fuori concorso) alla scorsa croisette cannense, dove il regista è stato accompagnato dalla “seconda” Furiosa, Anya Taylor-Joy, e da Chris Hemsworh, qui riscoperto nel ruolo magistrale di Dementus, il signore della guerra che rapisce la nostra quando ancora è piccola, inviolata nel suo immacolato Luogo Verde, la strappa alle sue care (perché il paradiso dell’Abbondanza è matriarcale), la ammutolisce con una museruola e la baratta come moglie sana per Immortan Joe in cambio di uno dei due avamposti nell’economia triangolare della Cittadella: Gastown da un lato, Bullet Farm dall’altro. Una geografia che prima era solo abbozzata e astratta, mentre ora si amplia, con una sua mitologia di sentieri e strade, deserti e canyon, dove l’arido orizzonte è una terra senza natura, e quindi senza Storia, contro cui la nostra giovane coltiverà con silente pazienza le migliori tecniche da guerriera per vendicarsi di chi le ha strappato tutto quello che aveva. Stupisce, quindi, la volontà di non ripetersi e ampliare la narrazione azzardando nuove vie, come del resto è parte del DNA di ogni capitolo della saga di Mad Max, ognuno con una sua propria idea di racconto. 

C’è una chiara e lucida consapevolezza in questo prequel, ovvero che Fury Road ad oggi costituisce un unicum nel cinema d’intrattenimento degli ultimi dieci anni, un’opera che risponde solo ed unicamente alla visione artistica e politica del suo autore, e non ad una logica da franchise: del resto è stato il primo e vero revival di una vecchia saga riportato sullo schermo dal suo stesso regista (basti ricordarsi che Il risveglio della forza sarebbe uscito solo poco dopo, a dicembre di quell’anno, ma senza più l’autorità di George Lucas). Se Fury Road era un’altra cosa, a ben vedere anche Furiosa è (per fortuna) un’altra irresistibile cosa.

Alla luce di queste considerazioni, George Miller usa il materiale di partenza di cui si servì Charlize Theron per la sua interpretazione in Fury Road, e sceglie la chiave narrativa del racconto di formazione, preferendo l’introspezione psicologica nella suddivisione in capitoli a scandire le cinque fasi dall’infanzia alla vita adulta di Furiosa, in un viaggio iniziatico alla vendetta dal sapore tarantiniano. Dementus è il Bill della situazione, il capitano di una ciurma di pirati a bordo di una “motoquadriga”, spietato con i suoi stessi uomini e cinico guerrafondaio estremamente febbrile e istintivo; molto diverso quindi dal già noto dittatore Immortan Joe, stratega ideologico capace di piegare al suo volere un intero esercito con pericolose promesse religiose. Tra questi due poli “patriarclanicali” prende vita quella che è a tutti gli effetti una grande epopea, ancora una volta femminile e femminista, in cui all’esile (ma efficace) linearità narrativa del film precedente, si preferisce la scelta dell’epica, di un tempo mitico in cui in cui il tono biblico abbraccia il percorso di Furiosa, senza però che il racconto prevarichi sullo spettacolo, ma che emerga tramite di esso, con i suoi movimenti, i suoi ritmi, le coreografie, gli scontri e le azioni, secondo quella che il regista definisce “musica visuale”, e di cui Fury Road continuerà ad essere il manifesto artistico da cui poco cinema d’azione successivo ha saputo imparane la lezione. 

In Furiosa non manca tutto ciò (anzi si abbonda), ma oltre al tempo dell’azione c’è il tempo di un’epica che si consuma ciclicamente nella geografia sconfinata delle Terre Desolate, contaminandosi degli umori dei personaggi, delle loro scelte e dei loro ideali. L’azione prende corpo attraverso ripetuti spostamenti a bordo di autocisterne blindate, ed espande il traffico di merci (latte, armi e gasolio) che connette le diverse fortezze produttrici di capitale. Un disegno scenografico che sintetizza chiaramente la distopia da cui fuggirà Furiosa nel film precedente. Si arricchisce di conseguenza la costellazione di volti: dall’enciclopedico Uomo Storia alla madre di Furiosa, Mary Jabassa, a cui è consegnato un prologo struggente che imprimerà l’iride di sua figlia (e la nostra), interpretata per buona parte del film dalla bravissima Alyla Browne, fino ai bizzarri comprimari di Dementus e Immortan Joe. Non solo la vendetta di Furiosa nei confronti di Dementus (personaggio tutt’altro che banale, a partire dallo stravolgimento iconografico sul corpo di Thor), ma anche la sua passione nell’apprendistato con Pretoriano Jack (Tom Burke), l’unica figura maschile sana in un paesaggio in cui alla mascolinità corrisponde un’archeologia residuale fatta di macchine, malattia e demenza, portatrice dei germi guerrafondai. Alla clandestina Furiosa non resta che opporsi, facendoci partecipi del suo dolore per seminare le basi per un possibile futuro mentre il mondo ci crolla addosso, nella nuova speranza di ritrovare il Luogo Verde, e gli occhi di una ferina Anya Taylor-Joy sono il cuore inestimabile in cui palpitano i valori di una Storia essenzialmente attuale, per quanto remota, passata o futura, in cui anche il sapore delle lacrime torna ad avere un peso nell’organismo narrativo e visivo. Al grande intrattenimento, da cui si esce piacevolmente storditi, non viene sottratta però l’urgenza di meditare, come in un incubo irrequieto e agitato uscito da un quadro di Bosch, il reale che ci circonda oggi, contaminato dalla pulsione millenaria dell’uomo a fare la guerra sul controllo delle merci, favorendo disastri ambientali, carestie e discrepanze sociali. In questo universo simbolico, portato in scena da Miller con soluzioni espressive che rimandano alle più antiche raffigurazioni belliche (le incisioni bidimensionali sulla blindocisterna) e in cui la voce dell’Uomo Storia funge da contrappunto storiografico alla mitologia femminile di Furiosa, una delle eroine meglio scritte e interpretate per mettere in scena (e in azione) la politica eco-femminista del suo autore.

Con Furiosa A Mad Max Saga, George Miller ribadisce la sua visione artistica totale attraverso il primato ipercinetico di uno spettacolo puro e primordiale, dove l’architettura acrobatica e coreografica è la linfa cinematografica di una travolgente questione privata, una tragedia classica da cui fiorirà una consapevolezza collettiva sulle spalle della sua emblematica eroina, perfettamente sprigionata dalla migliore interpretazione di Anya Taylor-Joy. Raramente il cinema d’intrattenimento odierno può avvalersi di opere così dense in ogni dettaglio della passione del suo Autore/Creatore, in cui si può benissimo sopportare una confezione solo apparentemente più “normalizzata” (dove gli effetti digitali a volte scricchiolano) pur di lasciarsi travolgere, insieme alle affilate musiche di Tom Holkenborg, fino alla fine dei titoli di coda dall’inventiva inesauribile dei nuovi stunt, in cui emerge tutta l’epica romantica di un western d’altri tempi innamorato del cinema di John Ford e David Lean, fino a regalarci sequenze indimenticabili di cinema slapstick (la prima sequenza sull’autocisterna con Jack, un amore di poche parole e tanti sguardi), fino alla spericolata e imprevedibile caccia finale, un’esplosione verbosa che arresta coraggiosamente il climax e con la quale Miller firma un testamento artistico sul valore primordiale dell’essere umano di raccontarsi storie, oltre le sabbie del tempo e dello spazio desolato. Oltre la vendetta.

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