Avatar. Un nuovo corpo
E’ già stato detto su queste pagine del Filmgamer: il cinema di James Cameron è l’emblema del rapporto tra la Hollywood mainstream e i videogiochi. Fin dagli anni ‘80 il medium interattivo è stato influenzato visivamente dalle opere del regista. Doom (ID Software) è stato uno dei giochi più importanti della storia del videogame, nonché il fondatore di un intero genere che tuttora domina il mercato dell’intrattenimento elettronico: lo sparatutto in soggettiva.
Tale Doom non sarebbe mai potuto esistere senza l’influenza del film Aliens – Scontro finale di Cameron. L’ispirazione era nell’idea di base: personaggi rinchiusi in una stazione spaziale spettrale e infestata da mostri. Ma il film incideva ancora di più dal punto stilistico e visivo: la famosa visuale in soggettiva con fucile in sovraimpressione del gioco ID era derivata dalle telecamere che i marines spaziali di Aliens tenevano sopra i fucili, restituendo così una serie di inquadrature dinamiche che comparivano sugli schermi osservati dal capo squadriglia nella sua base. Come al solito, il gioco dei rimandi diventa reciproco, infatti è innegabile scorgere nella struttura narrativa del successivo Titanic un meccanismo a incastro tipico dei videogame di avventura, come la scena nella quale Rose, per salvare Jack, deve compiere una serie d’azioni in un ordine preciso, superando un certo numero di ostacoli posti tra lei e il suo obiettivo.
Avatar non è che un altro film che mescola concetti propri al mondo del videogioco con quelli della fantascienza. Lo stesso termine “avatar” del titolo costituisce una parola molto usata nel gergo giornalistico e accademico del settore videoludico, indicando il personaggio virtuale controllato dal giocatore stesso e con il quale egli può interfacciarsi con il mondo finzionale. È qui che entriamo nella manipolazione e ridefinizione dell’identità di chi sta al centro della narrazione. Il film di Cameron riprende tutte quelle storie che vedono una crisi d’identità compiersi e risolversi attraverso un ricongiungimento con un ambiente nuovo ed esterno aggiungendoci però una componente tecnologica e “interattiva”.
Il protagonista Jake Sully, perso l’uso delle gambe in guerra, tenta di rifarsi una vita partecipando al progetto “Avatar” sul pianeta Pandora. Su questo mondo lontano, l’esercito terreste gli offre la possibilità di interfacciarsi con un corpo inanimato costruito a immagine e somiglianza dei Na’vi, popolazione indigena sottomessa agli umani. Per Jake quindi è possibile relazionarsi al mondo alieno di Pandora principalmente attraverso il filtro di questo corpo controllabile a distanza che presenta caratteristiche e abilità aumentate rispetto alla sua forma umana. L’avatar, rispetto al corpo reale di Jake, può: camminare, respirare la velenosa aria di Pandora, fondere il proprio sistema nervoso con gli animali autoctoni per controllarli, eccetera. Il parallelismo con la fruizione di un videogioco è evidente, un po’ come succedeva in Matrix, dove i protagonisti, una volta proiettata la loro immagine nel mondo digitale, accedevano ad una serie di abilità e poteri impensabili nel mondo reale.
Il giocatore di un videogame è costretto ad assumere un’identità altra per relazionarsi con il mondo virtuale e il mondo virtuale a sua volta lo vede e lo riconosce attraverso di essa. Il grado di trasparenza dell’avatar digitale dipende strettamente dal gioco di cui si fruisce: possiamo controllare un personaggio dalla forte personalità (Snake in Metal Gear Solid), un personaggio dai tratti forti ma dalla personalità generica (Super Mario Brothers), un personaggio modellato secondo il nostro gusto (un qualsiasi gioco di ruolo della serie The Elder Scrolls), oppure un travestimento quasi completamente trasparente (Gordon Freeman di Half Life). Ogni videogame che prevede un mondo fittizio organico e articolato ha bisogno di dare al giocatore un’identità con particolari credenziali e abilità, un avatar appunto.
Nel film di Cameron la fusione tra utente e avatar si spinge ancora più oltre. Jake inizia a identificarsi con l’ambiente alieno con cui ha a che fare, la percezione filtrata dal nuovo corpo diventa la sua percezione primaria, abbandona la sua vecchia origine umana per abbracciare quella nuova di Na’vi dove rivede un nuovo se stesso. In Avatar possiamo leggere il tradimento di Jake in due modi: il primo può essere la volontà di evasione da una realtà scomoda e squallida rappresentata dal mondo umano, per una dimensione fantastica e fantasmagorica incarnata nel nuovo mondo alieno. Nel secondo modo, invece, possiamo vedere nella condizione terrestre di Jake il simbolo di un’umanità sintetica e alterata che ha perso il contatto con le origini primordiali, mentre la forma Na’vi potrebbe essere interpretata come la ricongiunzione con la natura e quindi un ritrovamento della propria identità di origine dimenticata da secoli di tecnologia aberrante. Comunque lo si voglia leggere, il film di Cameron pone come suo fulcro il nuovo corpo, una nuova identità che passa dall’interazione digitale.