Edward Hopper e il cinema americano: soli in mezzo agli altri

Se, come affermava Pierre Francastel, l’arte in quanto linguaggio è un fatto sociale, è facilmente intuibile che un determinato tipo di arte nasce esattamente dove e quando dovrebbe. Se il cinema rientra alla perfezione in questa immagine (quando sarebbe potuto emergere se non nell’epoca della velocità, dell’ingordigia sensoriale e della perdita dell’aura artistica?), lo stesso si può dire della pittura di Edward Hopper (1882 – 1967). Quasi un Giorgio De Chirico che proietta le sue alte ombre sulla realtà quotidiana, i suoi personaggi costretti fra le proverbiali quattro mura come tanti Odisseo senza Calipso, prigionieri nella grotta dell’incantatrice a fissare eternamente il mare senza avere la forza di solcarlo. E chi meglio di Odisseo, animato da una fame inestinguibile di conoscenza (e dunque di potere), potrebbe preconizzare l’ottimistica spregiudicatezza dell’american way of life? Hopper ce ne mostra il lato oscuro, l’altra necessaria faccia della medaglia. Nell’opera di Hopper, la vastità degli spazi (verrebbe da dire dell’inquadratura), la nettezza del confine fra luce e ombra, la percezione quasi reale di un silenzio assordante contribuiscono a fare dei suoi personaggi dei naufraghi, incapaci di reggersi autonomamente, preda di una stanchezza che è percezione di un vuoto. Anime sole, ma per volontà propria. Ma quel desiderio di isolamento non è innocente: è provocato dai meccanismi della comunità, è rassegnata autodifesa, ripiegamento nell’effimera pace che si prova in uno spazio illusoriamente familiare. Hopper e il cinema si citano vicendevolmente (non è un caso che questo artista abbia rappresentato anche sale cinematografiche) e insieme costituiscono la prova di un determinato tipo di sistema. Del resto, il luogo-cinema è particolarmente indicato a un’analisi dei rapporti fra singolo e comunità: il singolo vi gode della solitudine in compagnia di altre solitudini, tutte rivolte a quel grande schermo che per Federico Fellini aveva qualcosa di sacrale[1].

Il rapporto fra la pittura di Hopper e il cinema è dunque particolarmente fecondo e i registi che vengono più sovente citati in merito sono certamente Alfred Hitchcock (inglese) e Wim Wenders (tedesco, per quanto in forte contatto con il mondo hollywoodiano). Ma l’americanità di Hopper, se così si può definire, è troppo caratterizzata per non apparire come un preciso segno socio-culturale e per non generare un’esigenza, ovvero quella di rilevare l’assoluta inscindibilità della sua arte dalla società in cui è nata. È dunque nel cinema americano che va ricercata la sua influenza: si assiste in particolare ad un riemergere della sua estetica in quello più recente e di stampo non prettamente commerciale, che spesso va sapientemente ad amalgamare l’istanza artistica con l’analisi antropologica (tale è il compito dell’arte). Almeno tre nomi (ma potrebbero essere più numerosi) sono degni di una particolare menzione: Todd Haynes, Curtis Hanson e Wes Anderson, che incarnano ognuno un differente aspetto della peculiare arte di Hopper. In Lontano dal Paradiso (2002) di Haynes lo spettatore resta abbagliato da un cromatismo saturo, in particolare dalle sfumature del verde erbaceo che nella pittura di Hopper viene spesso attribuito alle pareti, quelle pareti che sembrano di volta in volta contrarsi o espandersi senza possibile via d’uscita. Se il ritratto della comunità risulta impietoso proprio perché geometricamente elegante, non è certamente una coincidenza incontrare Dennis Quaid in un bar molto simile a quello tristemente popolato dai Nottambuli (1942) di Hopper: quale miglior segno identitario per un personaggio costretto a nascondere la più autentica parte di se stesso per non subire il rifiuto della società? La Los Angeles libertina, putrescente e nottambula (per l’appunto) di L.A. Confidential (1997), diretto da Curtis Hanson, è forse il ritratto più sottile e apparentemente meno coerente di quella realtà ordinaria di cui Hopper era straordinario interprete: colori caldi, forse più morbidi rispetto a quelli di Haynes, che però trovano nel contrasto fra luce e tenebra notturna una dimensione passivamente minacciosa. La ferocia della Città degli Angeli (da tempo caduti) esemplifica quella americana nella sua interezza, quella che James Ellroy ha vissuto sulla propria pelle e che Hanson sa tradurre in immagini con raffinato distacco. Il cinema di Wes Anderson ci offre invece quella componente naïf che unisce il già citato potere del colore a una rappresentazione forse più innocente dei rapporti fra singolo e comunità, non approdati alla rassegnazione di una grigia vita quotidiana quanto piuttosto ancora preda di una ricerca (come Odisseo, appunto. Si può quasi pensare a Steve Zissou come al suo volto contemporaneo). È certamente impossibile vedere Hotel Chevalier (2007) senza evocare i personaggi-particelle che nei locali di Hopper entrano in contatto senza incontrarsi mai, così come è facile ricordare quelle camere con vista in cui l’unica fonte di luce proviene dal mondo esterno. Ma l’inventiva di Anderson rende quella solitudine che in Hopper resta straziante una risorsa di scoperta, un viaggio in cui è piacevole perdersi: forse un tentativo di superamento di quell’ordinary life che negli Stati Uniti ha messo profonde radici.

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