Haze. Nel labirinto di Tsukamoto

Haze. Nel labirinto di Tsukamoto

Giappone, 2005, 50′, Tsukamoto Shinya (R. e Sc.)

Haze è uno dei tre film dell’edizione 2005 del Digital Sam in Sam Saek, un progetto particolarmente interessante del Jeonju International Film Festival. Semplificando, si chiede a tre registi dell’estremo oriente di lavorare ad un’opera, senza fornire una precisa chiave di lettura. Ma, forse perché i cineasti scelti appartengono sempre ad un modo di far cinema abbastanza riconoscibile (che fa rima con sperimentazione, tentativo di superare la barriera della banalità e una certa visione onirica della settima arte), i risultati, pur nella loro diversità, hanno un filo rosso ben visibile. Nell’edizione 2005 a far compagnia a Tsukamoto troviamo Apichatpong Weerasethakul (il cui Worldly Desires è, a onor del vero, il lavoro più interessante del trittico) e il coreano Song Il-gon.

Haze è liberazione. O meglio è il paradosso della liberazione, la sua epifania. Che, non è difficile capirlo, avviene nel momento in cui si scappa da qualcosa che non si conosce. Quando si deve fuggire, non si sa da dove e da cosa, farlo è ancora più stancante, snervante e fastidioso. È così che avviene in Haze, il film con cui Tsukamoto Shinya, per tematiche e atmosfere, sembra tornare alle origini. Perché nel mediometraggio[1], il regista giapponese lascia tutto nell’oblio più totale. Non si sa dove si trovi né da cosa stia sfuggendo il protagonista, proprio perché il lavoro inizia in medias res. Senza spiegazioni che giustifichino ciò che avviene e ciò che si presuppone sia avvenuto prima. L’intento del cineasta è chiaro e fin troppo limpido: il senso di claustrofobia che tutto il film vuole trasmettere è amplificato dalle condizioni di totale ignoranza (intesa proprio nel senso di non conoscenza) in cui è relegato lo spettatore. Il protagonista, Tsukamoto stesso, si ritrova, piuttosto malconcio, in un condotto dell’aria che si rivela essere un labirinto dal quale è quasi impossibile uscire. Nessun accenno, nessun ricordo del motivo per cui sia finito lì, solo un vagare al buio per cunicoli angusti e scoprire di angolo in angolo corpi feriti, mutilati. Ritorno alle origini, si diceva, perché come in Tetsuo la narrazione del film è estremamente episodica, frammentata e soprattutto anti-narrativa. Lontano dall’universo cyberpunk che animava le prime opere di Tsukamoto, Haze si sorregge però su una regia che in qualche modo li accomuna: macchina a mano, sporca, mobilissima, perennemente attaccata al volto e al corpo del protagonista, tanto che lo spettatore riesce a percepire il dolore dei chiodi che è costretto ad evitare ad ogni movimento. Del film si potrà dire che si incanala perfettamente nella ‘poetica’ del regista nipponico, perché ragiona ancora una volta della mutilazione del corpo umano all’interno di una società, quella contemporanea, che lo aliena. A noi di BILLY preme invece sottolineare solamente una cosa: Tsukamoto con Haze si dimostra ancora una volta (e se mai ce ne fosse bisogno) talmente consapevole del mezzo cinema da utilizzarlo come strumento per iniettare frustrazione e ansia. Non è il film a calare lo spettatore in un labirinto di claustrofobia dal quale è impossibile uscire, è la mano con cui è girato a portarti al centro di quel groviglio di lugubri condotti e a lasciarti lì a soffrire.

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