I cento anni di Pier Paolo Pasolini

I cento anni di Pier Paolo Pasolini

Sabato scorso, il cinque marzo, si è celebrato il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini.
E’ giusto ricordarlo dedicandogli qualche parola, anche se non è semplice narrare di un personaggio così controverso senza rischiare di ripetere questioni già dette e già lette. D’altronde, come si può usare la lingua italiana per raccontare di un autore che si è assunto il rischio di scrivere i suoi romanzi con il gergo delle borgate romane? Che ha realizzato film che scandalizzano il pubblico a tal punto da scatenare processi giudiziari, mi riferisco, per esempio, a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Non voglio circoscrivere Pasolini all’interno di schemi sintattici della nostra lingua che, come la definisce lui, non è altro che la lingua borghese. Non voglio nemmeno cadere nel banale, e mi riprometto di non farlo. Voglio raccontarlo con le parole che merita: parole di libertà, cercando di non urtare la sensibilità dei lettori. Non cadiamo nel banale, dicevo. Allora continuiamo.

Pasolini è stato un artista poliedrico: inizia con la poesia, continua con la prosa e si dedica al cinema. Di fatto, la sua produzione letteraria è vasta, ma quella cinematografica sembra esserlo di più.
Non appena scopre la potenza delle immagini niente lo ferma: né la censura né i processi. Tant’è che dagli anni Sessanta in poi la sua produzione di opere è inarrestabile, si produce quasi un film all’anno: Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e Uccellini (1966), Edipo Re, Teorema, Porcile e Medea (dal 1967 al 1969). E così Pasolini continua fino al 1975, anno della sua morte. Si dedica al cinema perché, come scrive egli stesso in Empirismo eretico,

«non esiste un dizionario delle immagini. Non c’è nessuna immagine incasellata e pronta all’uso.
Se per caso volessimo immaginare un dizionario delle immagini dovremmo immaginare un dizionario infinito, come infinito continua a restare il dizionario delle parole possibili. L’autore cinematografico non possiede un dizionario ma una possibilità infinita: non prende i suoi segni dalla teca, dalla custodia, dal bagaglio, ma dal caos, dove non sono che mere possibilità o ombre di comunicazione meccanica e onirica».

E’ grazie al cinema, dunque, che può sperimentare il proprio stile mescolando differenti forme linguistiche e registiche, si destreggia tra plurilinguismo e sperimentalismo. La lingua diventa uno strumento di coscienza critica del quale si serve: non è aulica ma comune, si spazia dall’italiano al dialetto. Così nella forma orale e in quella scritta.

Pertanto, è evidente la volontà pasoliniana di aborrire la convenzionalità, non esistono pudore né tabù: esiste il sesso e bisogna parlarne. La nudità nei suoi film è ostentata, non esiste, perciò, la vergogna. Ed è questo che bisognerebbe apprezzare di Pasolini: il disprezzo delle imposizioni figlie di un Secolo bigotto. Altro che boom economico degli anni Cinquanta e libertà! E’ vero che il neorealismo ha, in quegli anni, degli ideali ottimisti proiettati verso un futuro positivo, ma le opere di PPP non hanno niente a che vedere con questa concezione positiva.

Il futuro è una minaccia: è indubbio che l’Italia affronta la rinascita economica, la quale, però, altro non è che la nascita del neocapitalismo che mette a confronto la borghesia, con la sua ricchezza e i suoi salotti, con il sottoproletariato urbano degradato intellettualmente. Un sottoproletariato che Pasolini guarda con pietas, che racconta nei suoi romanzi e che inscena nelle pellicole. La forza del sottoproletariato pasoliniano risiede nella sua purezza che deriva dall’abbandono agli istinti, infatti per Pasolini «il popolo è natura». Una purezza che, come mostra il regista, il consumismo sta portando via mentre uniforma le classi che fino a quel momento avevano caratterizzato l’Italia. Ed è per questo motivo che Pasolini idealizza la primitiva, ma vitale, cultura contadina. Certamente è a tratti violenta e volgare, ma sostanzialmente tollerante. Lo si vede nell’ambientazione di Edipo re e di Medea, in cui si cerca di creare un mito della cultura contadina e si idealizza questo tipo di società. E’ noto anche nel suo primo film Accattone, in cui Vittorio Cataldi (Franco Citti) è il simbolo del sottoproletariato urbano delle periferie che non conosce il boom economico, e che come via di fuga dalla propria condizione ha solo la morte. Il pessimismo che Pasolini usa per raccontare la realtà lascia sgomenti.

D’altronde, PPP è l’intellettuale che critica e polemizza, è l’anticonformista per eccellenza. Non è più l’intellettuale organico gramsciano che deve agire per la diffusione delle idee del comunismo.
Non lo è perché dal partito lo hanno estromesso, ed è per questo che vuole definirsi come un intellettuale disorganico. Un intellettuale che non rispetta le regole, le cui forze razionali perderanno sempre contro la società che lo rigetta. Nasce così attorno alla sua figura l’aura dell’intellettuale pessimista e polemista. Non gli resta che accettare di vivere stoicamente in questo universo non più contadino, in cui “i contadini non vivevano l’età dell’oro, ma del pane” appunta l’autore negli Scritti corsari, in una lettera aperta a Calvino. Erano consumatori di beni necessari, non di beni superflui come negli anni Sessanta, che rendono la vita stessa superflua. Pasolini respinge l’omologazione e lo urla velatamente con la propria arte.

Un’arte che utilizza anche per narrare sé stesso e mostrare il proprio dissenso. E’ interessante, infatti, vedere come pone nelle sue opere, sia letterarie sia cinematografiche, un elemento comune: la componente autobiografica, piuttosto narcisistica e scandalistica. Parla degli altri per parlare di sé stesso, come in Edipo Re, in cui, chiaramente, il trovatello della prima scena è lo stesso Pasolini che mostra il proprio complesso di Edipo. Il dissenso è narrato, invece, attraverso delle forme di eros condannate dalla società borghese, perché evidentemente ama scandalizzarla e ha capito come fare.
Prendete Comizi d’amore, documentario girato nel 1963: cosa c’è di più scandalistico di chiedere a un anziano padre, contadino delle campagne emiliane, questioni riguardanti il sesso davanti alla moglie e alla figlia? Le risposte suscitano ilarità, ma la volontà provocatoria del regista provoca fascino e attrazione in chi guarda. E’ per questo motivo che le opere di Pasolini attraggono, forse proprio per lo sconcerto che provocano, se contestualizzate nel periodo in cui sono prodotte.
Il suo stoicismo unito al narcisismo personale fanno delle opere pasoliniane il suo autoritratto, ed è tutto ciò che di questo immenso autore ci resta. L’emarginazione dei suoi personaggi è la sua stessa emarginazione in quella società consumistica che non lo rappresenta, e da cui lui si discosta.

Se si ammira Pasolini, per una ragione o per un’altra, si fatica a non ammirare anche le sue opere perché sono chiaramente lo specchio del suo animo turbato. E gli animi turbati, gli emarginati, gli intellettuali disorganici sono quelli che, forse più di altri, vivono la vita con una spiccata dose di sensibilità e sanno raccontare ciò che non tutti vedono.

Ricordiamo Pasolini il cinque marzo, ma non dimentichiamolo mai perché è raro. Proprio come uno di quei fiori che sbocciano tra le insenature delle strade asfaltate: sono rari, purtroppo nati nel posto sbagliato, e per questo prima o poi sono destinati a essere estirpati da qualcosa di più forte. Da chi non conosce l’amore per l’arte e la bellezza.  

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