The Lion King

The Lion King

Il musical

Non ho mai recensito un musical di Broadway perché non ero mai stato a un musical di Broadway fino alla settimana scorsa. Poi, due settimane fa, sono andato a New York e ho deciso – insieme anche alla direttrice e a uno dei redattori senior di BILLY – di andare a un musical di Broadway, che se stai a New York per due settimane e non vai a un musical di Broadway sei un po’ poco furbo, dice. E ha ragione.

Abbiamo deciso, leggendo cose sul New York Times e su altre simpatiche pubblicazioni che trovi negli hotel a Chinatown, che avremmo visto The Lion King, perché è uno dei più premiati musical della storia (con tipo sei Tony Award) e perché va in scena ininterrottamente (e sistematicamente sold out) con due spettacoli al giorno, tranne il lunedì, dal 1997, inizialmente al New Amsterdam Theater, poi, dal 2006, al Minskoff Theatre. È giustamente considerato uno degli spettacoli più celebri degli ultimi decenni ed è il terzo spettacolo più rappresentato a Broadway di tutti i tempi, e noi, confessiamolo, siamo pop dentro. E confesso anche di essere, alla fine, un misero provinciale, pronto alla meraviglia e alla sorpresa.

Ora, io non so come si recensisca un musical, come dicevo in apertura. So che lo spettacolo è diviso in due atti, che è una produzione Disney, che segue in larga parte il film d’animazione, che ha le musiche di Sir Elton John e di Hans Zimmer, che ha il libretto scritto da Roger Allers e Irene Mecchi, è diretto da Julie Taymor e ha un cast notevolissimo. Ma so anche che non finisce qui. Anzi, so che tutto inizia prima, quando vai a Times Square (che è il capitale in forma di tre incroci di seguito) al box office dove di solito hanno i biglietti scontati e ti dicono che non ne esistono per Il Re Leone, non ne esistono dal 1997, e che anche gli equivalenti statunitensi dei bagarini italiani non ti possono essere utili. Allora ti sposti al Minksoff e vedi una coda interminabile di persone senza biglietto che attendono – con mantelli e maschere – la possibilità di entrare allo spettacolo delle 15, sperando che qualcuno che ha prenotato sia morto. E lì, la gentile addetta ti mostra i posti rimasti liberi per lo spettacolo delle 19 di due giorni dopo, ti da consigli su quali scegliere e ti rassicura che poi non ci sarà la fila che abbiamo appena visto fuori: «Enjoy the show!», dice. Ecco, in realtà lo spettacolo è già iniziato.

Due giorni dopo ci vestiamo bene, prendiamo le nostre subway e arriviamo al teatro mezz’ora prima dell’inizio dello show, la fila sta già scorrendo composta e ordinata, in mezzo ad addetti alla sicurezza che ti ripetono le raccomandazioni e quasi immancabilmente terminano le loro comunicazioni con «Enjoy the show!». Poi ci accorgiamo che il teatro, enorme, è allestito e pensato, fin dall’esterno, come il luogo in cui accade The Lion King, non si limita a essere semplicemente il teatro che lo ospita, e si offre, di nuovo, come qualcosa che è già e ancora lo show. E lo so che sono ripetitivo e prevedibile, ma davvero lì, in qual momento, senti sulla carne e negli occhi ciò che diceva Debord, e che continuo a citare, complice la demenza senile, come un mantra: «lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine».

Poi inizia il musical. Cioè prima hai avuto il tempo di comprarti cose da bere e da mangiare che vestono, sulle confezioni, le declinazioni del brand de Il Re Leone, poi hai letto il libretto di sala, che è una narrazione aggiuntiva integrata ma anche indipendente, quindi passano le maschere a raccomandarsi più volte di non fare né foto né video e tassativamente di non muoversi se non durante l’intervallo, ché succederanno cose. Poi inizia il musical.

E al netto della qualità del libretto, delle musiche, delle scenografie, del cast, quello che succede è che piangi, partecipi, fremi, esulti, applaudi e, insomma, sei coinvolto in qualcosa che non si limita a essere rappresentato ma – come detto poco sopra – ti accade, davanti e di fianco, e in realtà ha cominciato ad accaderti due giorni prima, e forse ancora più in là.

Io non so come si recensisca qualcosa del genere, e non so neppure quanto sia interessante che io lo faccia. Qualcuno potrebbe anche dire che non si tratta neppure di un prodotto artistico, alla fine, o di qualcosa che dialoghi davvero con il teatro in senso proprio, per quanto tecnicamente lo faccia – al netto dell’eventuale dimensione puramente intrattenitiva, che ovviamente non rappresenterebbe un problema o un limite. Quello che per me è certo è che mi sono trovato di fronte a un evento che non avevo mai avuto modo di praticare prima, neppure nei pochi altri musical che avevo visto in giro per l’Italia e il mondo. Qualcosa che intrattiene una relazione diretta con la produzione industriale e ripetuta di emozioni in senso esteso, in grado di esondare dalla singola esperienza di palco o quantomeno di risultare pienamente completa attraverso alcuni para-testi talmente rilevanti – e immateriali – da risultare essi stessi, in realtà, testi portanti.

O forse – come fosse un’epifania – sono solo davvero troppo provinciale e improvvisamente pop.

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