La creazione del mondo

La creazione del mondo

Scrivo queste righe sia da documentarista, posto che io lo sia ancora, sia da osservatore, sperando di non smettere mai di esserlo. Le scrivo perché io non so se stavolta cambierà qualcosa, se qualcosa è già cambiato, se sta cambiando o se non c’è modo di far sì che cambi.

Cioè a Venezia vince un documentario — non come miglior documentario ma come miglior opera in assoluto della 79ª Mostra del Cinema — e si dice che è (di nuovo) arrivato il momento, si dice che finalmente sarà chiaro a tutti che un documentario è un film, e che questi vent’anni in cui il concetto abusato e sfrangiato di “cinema del reale” ha attraversato immagini, Forum e Orizzonti vari, per riuscire a non definirsi, a emanciparsi dall’abbraccio esiziale del ‘900, sono finalmente serviti a qualcosa.

Che poi era già successo, in realtà. A Cannes nel 2004, quando l’anacronistico Fahrenheit 9/11 di Michael Moore vinse la Palma d’oro, scatenando — dicono i beninformati — la reazione scomposta (e decomposta) di Jean-Luc Godard: «Moore non conosce la differenza tra testo e immagine, non sa quel che sta facendo». E poi di nuovo a Venezia nel 2013, con Francesco Rosi e l’impostura visiva di Sacro GRA che si aggiudicò a sorpresa il premio più ambito. Giusto per dirne due. È cambiato qualcosa? Sinceramente non so, sinceramente temo di no.

Ci siamo giustamente detti, in questi anni, pensando al primo ventennio del nuovo millennio, che finalmente «il documentario si è emancipato dal lessico ristretto in cui era costretto: “tema”, “denuncia”, “inchiesta”, “intervista” e via elencando. Si è allontanato, a voler essere brutali, dalla televisione, a cui era semplificato: “Non è un film, è un documentario”, si diceva un tempo», citando Giulio Sangiorgio, che scriveva queste parole nel 2020 su FilmTv.

Abbiamo davvero creduto, sapendo che il cinema del reale vive di confini, che finalmente quel confine tra le due categorie in cui si era voluto irreggimentare il cinema fin dalla sua nascita, ossia le istanze documentali (Lumiere) e volontà finzionali (Melies), si fosse almeno spostato, se non addirittura risolto.

Tanto che Daniele Dottorini, nel suo “La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo” (Mimesis, 2018) diceva che «occorre mettere in discussione radicalmente queste due categorie, la loro esistenza separata e le definizioni che si sono susseguite nel corso della storia del cinema. E occorre fare questo non astrattamente, ma attraversando un lavoro di immersione nelle forme del cinema del reale, interrogando le sue pratiche, spostando i termini del discorso, creando nuove connessioni, nuovi montaggi».

Non che fossimo ingenuamente entusiasti, sia chiaro, o che pensassimo di essere necessariamente di fronte alla rivoluzione d’ottobre, o ancora che tutto ciò fosse, perdonate il gioco di parole, già o ancora o persino reale. Era un auspicio, forse, una lettura, un’ipotesi, perché qualcosa, oggettivamente, si stava muovendo e agitando. C’era stato Oppenheimer, d’altronde, il suo re-enacting, il dittico The Act of Killing (2012) e The Look of Silence (di due anni dopo, Premio speciale della giuria a Venezia), ossia il lavoro documentaristico più importante forse di sempre, di sicuro degli ultimi 10 anni.

Quindi? Quindi dice che abbiamo vinto. Che il trionfo di All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras (film che personalmente non ho ancora visto) è il coronamento di questo percorso, che quindi non è così vero, oppure non è così un male, che «il cinema del reale di oggi riflette soltanto l’immagine di se stesso, non c’è verità, c’è solo infinita rappresentazione, di codici, di norme, di modelli culturali, di stratificazioni mediatiche e storico-sociali. Il cinema del reale è scomparso», come sosteneva nel 2014 — ossia un’era geologica fa, dal punto di vista dei dispositivi culturali legati all’audiovisivo — Ivelise Perniola, ne “L’era postdocumentaria”. Perché in realtà, forse, occorre cambiare il modo di guardare e occorre smettere di sentire il prodotto cinematografico con la lingua novecentesca, ché tutto cambia ed è cambiato, nella produzione e nella percezione dell’audiovisivo: e sì, allora il cinema del reale è scomparso, con e in questo senso, e quindi viva il cinema del reale.

Ecco, appunto. Ma allora perché, mi chiedo, in realtà, il cinema del reale contemporaneo che maggiormente viene fruito, che maggiormente incide (sul)la contemporaneità, che ancora viene percepito come il segno documentaristico per definizione, che ne esaurisce il senso, è rappresentato dai documentari di Netflix? Ossia da dispositivi programmaticamente e narrativamente e formalmente legati al documentario per come lo abbiamo conosciuto in passato, vecchi prodotti che non sembrano essersi accorti che il cinema del reale è scomparso, a cui non è stato detto che abbiamo archiviato il ‘900, né che ci siamo ibridati o che le distinzioni sono tessuti permeabili e discutibili e discussi. O forse The Last Dance, il documentario più visto su Netflix nel 2021, la docu-serie su Michael Jordan, non è cinema del reale? Sembra che il contemporaneo percoli in questi prodotti unicamente in termini di necessaria serialità. È sufficiente?

Mi viene da azzardare che forse, allora, non abbiamo proprio ancora vinto, o forse le vittorie non passano da palme e leoni e statuette dorate. O forse non si tratta di vincere, semplicemente. Però, se il documentario è invenzione del reale e creazione del mondo — con o senza le implicazioni “politiche” o “militanti” del ‘900 (e anche un po’ oltre, in realtà) —, che mondo si sta creando, che reale si sta inventando, cosa stiamo rifondando o mettendo in crisi, con il nostro sguardo?

E siamo sicuri che tutto ciò non riguardi l’Italia che avremo dopo il 25 settembre?

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