The Rings of Power – Le strade di Mordor sono infinite

The Rings of Power – Le strade di Mordor sono infinite

La prima stagione della serie tv più costosa della storia è giunta da poco al termine e, probabilmente, moltə fan non seguiranno il famoso invito di Gandalf a piangere “perché non tutte le lacrime sono un male”. 

Questa serie lascia infatti l’amaro in bocca e tanta delusione, derivante, non solo dalle alte aspettative, ma anche da una trama lacunosa e da una scrittura non pienamente convincente. 

Che si sia o meno fan sfegatatə della saga, bisogna ammettere che l’eccessiva libertà rispetto al testo originale non ha sempre dato i risultati sperati, con delle scelte narrative che lasciano perplessə.

Dialoghi lunghi, superflui e non sostenuti da una scrittura di spessore non aiutano certo a combattere l’estrema lentezza della serie. In generale, mi è sembrato di vedere una cattiva gestione dei tempi scenici, con puntate molto lunghe non funzionali né a raccontare qualcosa né a costruire l’immaginario, costellate da inesattezze e compressioni temporali difficili da ignorare (basti pensare alla rapidità impossibile con cui i personaggi si spostano per mezzo continente o al fatto che per molte ore non si vedono dinamiche narrative degne di nota, mentre la costruzione degli anelli – core dell’intera serie – viene compressa in pochi minuti, senza neanche essere mostrata). 

L’enormità del budget a disposizione sembra giustificata solo da paesaggi di una bellezza che lascia senza fiato, con un’attenzione ai dettagli forse mai vista prima in un’opera, a tutti gli effetti, cinematografica. 

Per fortuna, il sottile filo rosso di BILLY di questo mese mi permette di concentrarmi su una delle poche cose che ho trovato davvero molto interessanti e innovative in questa serie: lo spostamento del punto di vista dalla vittima al carnefice. 

Gli Orchi di The Rings of Power sono orchi diversi da quelli che ci ricordavamo e, attraverso la figura di Adar, per la prima volta hanno una voce e possono condividere le motivazioni intime delle loro azioni. 

Gli Orchi di Tolkien sono essenzialmente schiavi – di Melkor, di Sauron, di Saruman – e, in quanto tali, completamente privi della libertà e della responsabilità di scegliere. Il male tolkeniano si presenta come sottrazione del libero arbitrio, rispecchiando in questo la tragedia del periodo storico in cui è stato concepito. Sugli orchi di Tolkien pesa, infatti, il macigno del ‘900: la banalità del male, l’aver soltanto obbedito agli ordini. Gli orchi di Mordor sono quelli di Norimberga, spietati e semplicemente ubbidienti, e il trauma del XX secolo impediva di dialogare con questo volto orrendo del male. 

The Rings of Power, invece, forse forte del rinnovato interesse cinematografico per il carnefice e dello spostamento dei riflettori da chi agisce contro il male a chi agisce il male, decide di affrontare questi mostri, dando loro la parola e costringendoci ad ascoltarli.

Il tentativo di riportare la visione tolkeniana nella serie si vede, ad esempio, nel dialogo tra Galadriel e Adar, in cui l’elfa ripete spesso il concetto che gli orchi sono schiavi e che Adar è un orco schiavizzante. In quella scena, però, per la prima volta, viene completamente ribaltato il punto di vista e crollano le certezze granitiche su cosa è Male e cosa è Bene

Vediamo infatti un’elfa, che dovrebbe rappresentare la luce e il Bene, a tratti molto più oscura dell’essere che rappresenta il Male. Il classico manicheismo tolkeniano si spezza e ascoltiamo finalmente il punto di vista del cattivo. Un cattivo che considera quegli esseri abominevoli non schiavi, ma figli e che addirittura ricorda che ognuno di loro ha un nome e un cuore. 

Anche la concezione religiosa presente nelle opere di Tolkien subisce uno scossone quando Adar dice a Galadriel che anche loro sono figli dell’Uno e altrettanto degni del soffio della vita. Gli orchi della serie sono orchi che sembrano combattere per il loro diritto di stare al mondo e di avere una casa e, paradossalmente, sembra più facile empatizzare con i cattivi, che con un’elfa mossa solo da cieco spirito di vendetta e che si nasconde dietro una visione profondamente razzista per giustificare il suo desiderio di uccidere. 

Nonostante il personaggio di Galadriel sia, a mio avviso, privo di spessore e coerenza, ho apprezzato però il tentativo, più rispondente forse allo spirito del nostro tempo che a quello di Tolkien, di rinunciare al dualismo e tenere insieme luci e ombre, approfondendo la complessità dei personaggi, che è l’unica cosa che li rende veri.

Noi – spettatori e spettatrici di questo momento storico – non abbiamo forse più bisogno di un male assoluto contro cui scagliarci completamente per sentirci al sicuro. Sentiamo invece più urgente la necessità di accettare che ognuno di noi è sia vittima che carnefice e reagisce, tanto alla luce del sole, come all’oscurità degli abissi, in modi imprevedibili.  

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