Wanna, venditrice di illusioni
La televisione dà, la televisione toglie: mi sembra questo il modo più breve ed efficace per riassumere la parabola di Wanna Marchi e Stefania Nobile. I loro nomi sono estremamente conosciuti e indissolubilmente legati al tanto ricco quanto evanescente mondo delle televendite, quello che tra gli anni Ottanta e i Duemila ha decretato il successo di personaggi a dir poco sui generis come Roberto “Il Baffo” Da Crema o Chef Tony, facendo credere a milioni di persone che comprare avrebbe risolto tutti i loro problemi. Non so voi, ma io qui ci vedo del capitalismo.
Wanna Marchi e Stefania Nobile, inseparabili madre e figlia, non erano solo uno dei tasselli che componevano il grande puzzle di quel mondo: loro ne erano le Regine e hanno toccato le vette più alte di vendite, guadagni e successo. Non c’era nessuno in Italia che non conoscesse i loro nomi, i loro volti e le loro voci, nessuno che non avesse mai visto uno dei loro spettacoli – perché sì, alla fine è di spettacoli che si tratta. Erano talmente importanti che quando sono crollate tutto il Regno delle televendite è crollato con loro, lasciando tapiri di sale e un vuoto televisivo. La loro storia, e la storia di quel pezzo tanto criticato quanto importante della televisione italiana del quale hanno rappresentato il meglio e il peggio, è stata recentemente raccontata in Wanna, docuserie Netflix in quattro puntate che ha unito alle testimonianze audiovisive dell’epoca quelle di giornalisti, inquirenti e persone che hanno vissuto in modi diversi una vicenda tremendamente marcia. Ma a parlare sono state, ovviamente, anche le sue protagoniste.
La bellezza a tutti i costi
Dicevo: la televisione dà, la televisione toglie, e i personaggi di Wanna Marchi e Stefania Nobile nascono e muoiono su quegli schermi che sono per loro croce e delizia. Tutto ha inizio quasi per caso quando a Vanna – sì, con una semplice V -, abilissima venditrice di bellezza nel mondo fisico con un negozio a Ozzano dell’Emilia, viene proposto di fare delle televendite. La prima va malissimo, non vende neanche un prodotto. La seconda, triste e peggio. Alla terza Vanna si presenta a mani vuote, piangendo l’impossibilità economica di continuare a svolgere quest’attività: è la svolta, il centralini impazziscono, i telefoni squillano solo per lei. I clienti comprano, comprano e comprano ancora un prodotto che non hanno nemmeno visto mentre lei fa quello che oggi chiameremmo storytelling, un’incredibile performance di marketing emozionale. Ed è così che Vanna diventa Wanna.
Capito il meccanismo, non la ferma più nessuno. Wanna e sua figlia cominciano a vendere alghe, creme dimagranti, anticellulite e addirittura il cosiddetto scioglipancia prima ancora di proporne la creazione alla ditta cosmetica con la quale collaborano. Lo fanno rivolgendosi a un pubblico ben preciso, quello delle donne, con arroganza e violenza, cercando di insinuare in loro quell’insicurezza che le avrebbe portate a comporre il numero del loro centralino. E ci riescono. Brutta, grassa, lardosa sono solo i modi più semplici che usano per rivolgersi alle persone che le stanno rendendo estremamente ricche, che le permettono di comprare gioielli, orologi, abiti e case. Vendere la bellezza non significa più truccare o consigliare un prodotto come Vanna faceva nel suo negozio (sia ben chiaro, con modi non molto diversi), ma significa convincere di non essere abbastanza belle, abbastanza magre, abbastanza piacenti e a comprare la cura alla propria inutilità al modico prezzo di trecentomila lire o giù di lì.
Il benessere dell’anima o il nulla?
Wanna raggiunge l’Olimpo della tv italiana, viene invitata ovunque, dal salotto di Maurizio Costanzo a quello di Pippo Baudo. E anche quando la bancarotta e dei movimenti più o meno legali con personalità affiliate alla camorra mettono i bastoni tra le ruote alla sua ascesa, Wanna Marchi come una fenice rinasce dalle sue ceneri e torna a fare l’unica cosa che sa e vuole fare davvero, vendere. Stavolta però, dopo aver provato per la prima volta il carcere, non si ferma a vendere l’illusione della bellezza. La coppia formata da lei e sua figlia diventa un trio e insieme al “maestro di vita” do Nascimento, di professione cameriere, comincia a vendere addirittura la fortuna. Prima l’oroscopo poi i numeri del Lotto, i riti, gli amuleti, il sale da sciogliere nell’acqua: le loro televendite non si occupano più del benessere del corpo ma passano a vendere quello dell’anima o, in base ai punti di vista, il nulla.
Anche in questo caso il modo in cui agiscono dice forse più delle vendite in sé, facendo leva su problemi familiari e sulla possibilità di tragedie per amici e parenti, ma soprattutto su quel pubblico che già si era fidato di loro. Wanna vende la buona sorte ma, lungi dall’affidarsi a essa, preferisce i database contenenti i numeri delle persone che avevano comprato i suoi prodotti di bellezza; persone tendenzialmente non più giovanissime, magari sole, magari estremamente insicure. E a queste chiede qualcosa e poi sempre di più, ancora di più, facendole entrare in loop dai quali uscire è tutt’altro che semplice. Loop nei quali un amuleto può costare ventimila o duecentomila lire in base alle possibilità economiche del soggetto, e nei quali a ogni passo falso la vita dei propri cari può essere appesa a un filo. Ma alla fine – come ho detto e ripetuto – la televisione dà, la televisione toglie, ed ecco che proprio dal piccolo schermo partono i dubbi sull’attività di Wanna Marchi. Dubbi che prima sono di Striscia la Notizia e poi degli inquirenti, e che portano Wanna e Stefania a essere condannate a più di nove anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata alla truffa.
Una carneficina sociale
Ma in un contesto in cui BILLY, vostro fedele amico e compagno di viaggio, vuole portarvi per mano e in tutta sicurezza su una strada piena di carnefici, il motivo per cui parliamo di Wanna Marchi non è legato alla sua condanna legale, ma al suo ruolo sociale. A prescindere dal processo a porte aperte durante il quale ha cercato di fare breccia nel cuore degli spettatori esattamente come aveva fatto durante la sua terza televendita, a renderla la carnefice che evidentemente è sono due fattori intimamente connessi: la volontà di promuovere il nulla come fosse oro colato e l’assoluta mancanza di rimorso nel farlo. Wanna Marchi ha sempre venduto illusioni, e di questo è più che consapevole: «Tutti abbiamo bisogno di illusioni nella vita», è lei stessa a dirlo e, se ci penso, non me la sento di darle torto. Ma il punto è se sia giusto, più che legittimo e legale, approfittare dell’altrui bisogno di illusioni e fare leva su quelle dei più deboli per ottenere un tornaconto. Secondo Wanna, sì. Ed è questo che la rende davvero carnefice.
Per tutta la durata della serie, Wanna Marchi e Stefania Nobile non mostrano alcun tipo di rimorso per le azioni compiute e anzi, in più di un’occasione si ostinano ad affermare che sono le persone che compravano da loro ad aver scelto consapevolmente di farlo. La loro è una carneficina economica nei confronti delle vittime, ma soprattutto una carneficina sociale e umana durante la quale la legge del più astuto la fa da padrone. So quali tasti toccare, so come toccarli e li tocco. Prima piano, poi sempre più forte. Ma la verità è che anche Wanna e Stefania hanno bisogno delle loro illusioni: non hanno sbagliato, non hanno sfruttato e la loro fine è stata decretata da chi vuole far loro del male e non dalle loro stesse azioni. Wanna, la regina delle televendite, riesce a vendere illusioni anche a se stessa. La sua carneficina non è ancora finita.