NOTTURNI  AMERICANI: American Graffiti e I Guerrieri della Notte

NOTTURNI  AMERICANI: American Graffiti e I Guerrieri della Notte

Dal 1° a 5 di Marzo scorso si è tenuta la prima convincente edizione del NOAM. Faenza Film Festival. Cinque giorni in cui il pubblico ha avuto la possibilità di conoscere opere cinematografiche ancora inedite in Italia e provenienti dai circuiti indipendenti della contemporanea cinematografia nordamericana, con un focus geografico che ha abbracciato il Messico, gli Stati Uniti e il Canada.

Tanto di cappello ad un’organizzazione preparata e competente, che ha saputo curare con passione una selezione variegata e coraggiosa, presentando titoli non per forza eccelsi ma dignitosi di trovare una nuova luce oltreoceano nel centro storico di Faenza, tra gli schermi del Cinema Sarti e del Cinema Europa, lasciando la possibilità al pubblico di conoscere le voci, gli sguardi e le tendenze dell’America di oggi, favorendo una finestra d’incontro multiculturale defilato dalla corrente mainstream.

Ma non c’è l’America Oggi senza quella di ieri, allora quale migliore occasione per inaugurare questa prima edizione tenendo ben presente due forze del passato come American Graffiti e I Guerrieri della Notte? Questi sono stati i titoli di apertura e chiusura che hanno illuminato il passaggio di questo ufo cinematografico sul territorio romagnolo, fiduciosi che torni con nuove e sorprendenti sorprese.

Cerchiamo allora di mettere a fuoco questi (si perdoni la ripetizione) ultimi fuochi della New Hollywood. Non per forza le opere più cruciali, ovvero quelle fallimentari di Coppola, Cimino e Scorsese, oppure quelle più di rottura che hanno aperto il terreno alle nuove rotte industriali del moderno blockbuster americano, Lo Squalo e Guerre Stellari su tutte. Ed è proprio il regista di quest’ultima pellicola che ci interessa: prima di potersi guadagnare la fiducia degli studios (nel segno di quelle nuove conglomerate multinazionali che stavano mutando profondamente gli assetti economici delle avvenenti industrie culturali), George Lucas è un giovane regista in erba già noto per un film di fantascienza a basso costo, THX 1138 (L’uomo che venne dal futuro), sviluppo di un suo cortometraggio pensato ai tempi dell’università della California. Ancora maggiormente interessato ad esplorare i sentieri underground dell’avanguardia, talvolta attraverso il documentario sperimentale, Lucas coltiva già l’idea di quel progetto seminale che avrebbe rivoluzionato il genere di fantascienza proiettandola verso l’impero della space-opera. Prima di concretizzarla, però, l’amico Francis Ford Coppola lo esorta a ideare un film “più facile”, che gli permetta di farsi notare.

Salto nel tempo: dal 1973 in poi piombiamo in una notte d’estate del 1962 a Modesto, contea di Stanislaus, California, in quel passaggio di rito verso la vita adulta che si brucia nello sperpero incondizionato di litri di gasolio. Lungo le strade asfaltate, intenti a rimorchiare le ragazze a suon di clacson, si accende nella sera l’attesa per un’ultima corsa spericolata vero l’alba, i postumi di un’innocenza gagliarda spazzata via dall’incubo di Daley Plaza nel novembre del 1963.

A neanche trent’anni Lucas ripensa al suo passato, alle sue frivole bravate, ricreando in quel viaggio notturno, tra fiumi di gas e luci abbaglianti, un’estetica a bordo macchina, delle proto-navicelle in cui sentirsi sicuri nello spazio californiano, lontano dalle bruciante realtà della guerra oltreoceano che si sarebbe consumata per un altro decennio, bruciando i sogni di tanti giovani americani. Da quel momento in poi la consacrazione del film nostalgia che avrebbe segnato indelebilmente il dna del cinema americano, la sua ossessione verso il passato, la concettualizzazione di quelle esotiche Sessantezze (o Settantezze) a cui oggi i registi non possono fare a meno di tornare. Basti pensare alla bomba ad acqua omaggiata da Paul Thomas Anderson nei primi istanti del suo recente Licorice Pizza, ambientato nella stessa estate in cui esce in sordina (primo del successo plateale) American Graffiti di Lucas nelle sale statunitensi.

Tuttavia, nella San Fernando Valley di Anderson la realtà è tangibile per le strade, la crisi petrolifera dell’OPEC paralizza la viabilità e il passato è percorribile solo a piedi, di corsa, mentre solo pochi mesi prima nel set di Lucas si registravano take con i motori costantemente accesi e inarrestabili. La memoria si rinfrange in questi specchi di un paesaggio tardo-industriale, un’illusione di merci e spettri, dove una ragazza intravista di profilo per strada si può intercettare solo e soltanto attraverso la stazione radio della nostra adolescenza, illusi di aver letto nel suo labiale “I love you”.

Il filosofo del postmoderno Fredric Jameson individua proprio in questo film un passaggio cruciale per la cultura americana del tardo capitalismo, quel “nuovo discorso estetico” in cui la colonizzazione dei passati generazionali ridefiniva un rapporto diverso con la Storia delle immagini del secondo Novecento. In questa nuova cinematografia americana ribolliva anche quella che l’americanista Franco La Polla battezzò come la poetica della nostalgia, insita come costante fondativa della psicologia statunitense già da tempi immemori, laddove l’epifania di Lucas suggella «il sogno di chi non può sognare rivisto nella sua stessa memoria, nel tentativo di rintracciare un filo, una connessione fra quel sogno e la realtà del poi; come dei graffiti che, perduti in un passato lontanissimo sembrano conservare il segreto di un significato che, forse illusoriamente, contiene in sé il senso di ogni immagine a venire».

Altro salto temporale e non solo, spostiamoci sull’altra costa: New York, è il 1979, I guerrieri della notte esce al cinema, Saigon è caduta pochi anni prima, la guerra sembra finita, i reduci fanno il loro ingresso nel Cinema statunitense, il ritorno a casa è annebbiato dai vapori dei tombini metropolitani, mescolandosi nella memoria febbricitante di Travis Bickle, pronto ad impugnare le armi contro il trauma ricalcitrante della giungla del Vietnam ancora pulsante nelle sue vene rigonfie del calore di uno smarrimento ideologico. Mentre lui guida il suo taxi notturno in Taxi Driver, nello stesso momento un’altra gioventù potrebbe muoversi nella cartografia di New York, quando uno sparo nel Bronx getta le centinaia di giovani gang nell’anarchia totale. Gli occhi, insieme alle antenne radio, però sono solo puntati sui Warriors intenti a ritornare sani e salvi a Coney Island in una giungla calata in un iperreale scenario notturno, sipario di un’altra guerra violenta contenuta tra i sotterranei di Manhattan, le sue fermate sopraelevate, i quartieri marcescenti e le imboscate peccaminose dietro il ghigno suadente della ragazza sbagliata.

Nella sua versione restaurata in 4K, la ballata di Walter Hill si ripresenta in tutta la sua allucinata e sistematica violenza. La caccia al topo di una generazione segnata, dove la lotta di classe si sfiora all’ultima fermata del metrò, nello sguardo sprezzante di quattro giovani borghesi nati dal lato “giusto” e pulito della società, “ignari“ del sangue sprecato della notte newyorchese che oggi molto cinema recente si preoccupa di rievocare (da 1981: Indagine a New York di J.C. Chandor a Joker di Todd Phillips).

La memoria per la metropoli cinematografica è ben diversa dalla nostalgia di una notte di mezza estate ravvisabile nella California di American Graffiti. La terra nativa  sognante di Tarantino e Anderson, nelle loro recenti geografie dell’infanzia, lascia il posto all’incubo notturno di Walter Hill, a un western rovesciato in cui ribolle l’estetica della violenza giovanile esplosa con Arancia Meccanica all’inizio del decennio. New York però non è la Londra distopica di Kubrick, non c’è spazio per gli adulti, la legge o la politica, non c’è tempo per queste istituzioni “diurne”, c’è solo l’orologio di una notte contro cui uscire vivi allo scoccare della prima luce dell’alba.

Due notturni americani, due geografie diverse, due diverse modalità di spostamento nello spazio: l’ondivago, “casuale” e spensierato easy cruising di George Lucas da un lato dell’America provinciale e innocente, mentre dall’altro una mappatura serrata della metropoli dell’East Coast, una corsa “causale” a piedi negli anfratti più bui della gabbia animalesca di Warriors. In questi scenari la radio assurge a protagonista assoluta di una psicologia cinematografica della Storia: a Modesto è una trasmittente notturna che freme di rock’n’roll e surfing U.S.A, il termometro di un’ultima estate calda in cui riverbera la voce rassicurante e paterna di Wolfman Jack, mentre dal Bronx la voce sensuale della radio catapulta i giovani warriors in una società della sorveglianza dove ogni comunicazione è uno scacco matto al sogno americano che oramai non c’è più. C’è forse solo il ricordo di qualche estate lontana, dove i giochi dell’infanzia non si sono ancora trasformati nel “giochiamo a fare la guerra”, mentre nel frattempo, tra il 1962 di Lucas e il 1979 di Hill, una generazione e più sono morte nella guerra del Vietnam. In questi molteplici richiami generazionali si condensa la luce ancora pulsante dell’eterna e notturna ruota delle meraviglie di Coney Island, titoli di testa, prossima fermata… inizia un altro giro di giochi.

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