Le icone musicali degli anni ’90

Le icone musicali degli anni ’90

Nell’arte contemporanea sono due i termini che ne descrivono i tratti distintivi: “iconico” e “icastico”. Secondo Renato Barilli, il passaggio dall’icastico, ovvero la rappresentazione essenziale del soggetto, all’iconico, che invece rappresenta il soggetto in una totalità visiva, sensoriale e plastica, segna il punto di svolta tra l’arte moderna e quella contemporanea. Quindi, se vogliamo compilare una breve lista di musicisti iconici, dobbiamo concentrarci su coloro che, indipendentemente dalla fama e dal successo, hanno reso l’esperienza del loro tempo “totale”.

Negli anni ’80 e ’90, la cultura popolare conosce un’esplosione grazie a una serie di fattori politici, sociali ed economici. Durante gli anni ’90 si raggiunge l’apoteosi del middlebrow diffuso, un modo di pensare semplificato che porta a identificare un fenomeno culturale tramite esempi singoli e facili da comprendere, che non riescono però a cogliere appieno la complessità della proposta culturale di riferimento. Per fare un esempio generale: negli anni ’90 il rock è il grunge, il regista di riferimento è Tarantino; il tennis è Andre Agassi. Questi sono modi di consumare prodotti culturali che si basano sulla facilità con cui essi si presentano esteticamente grazie alla loro innegabile abilità nel captare i gusti e i codici del tempo. In breve, si tratta di fenomeni culturali ben definiti, lineari e riconoscibili, icastici.

Vengono presi in considerazione termini opposti: fenomeni artistici e sonori che hanno un impatto totale e che ancora oggi sono caratterizzati da una completezza che potremmo definire “iconica”. Questi fenomeni vanno oltre la semplice traduzione facile e immediata e resistono alle logiche di consumo. Tuttavia, è importante sottolineare che la distinzione tra “iconico” e “icastico”, come descritta, non mira affatto a emettere un giudizio di valore sui grandi fenomeni della cultura popolare degli anni ’90. Più che una lista, quindi, i seguenti sono esempi di come si è tradotta questa teoria in campo musicale nell’ultimo decennio del secolo scorso.

L’album Nevermind, con la sua copertina iconica degli anni ’90, è diventato un simbolo della musica alternativa nell’immaginario collettivo. Tuttavia, c’è un altro album uscito nello stesso anno, il 1991, in cui l’elemento dominante è l’acqua sulla copertina. È l’immagine di “Spiderland” degli Slint, quattro volti che emergono dai flutti di un fiume formatosi tra le cave di Utica Township, Indiana. Band di Louisville, Kentucky, gli Slint sono diventati un vero fenomeno della cultura underground. Nel corso del tempo, si sono affermati come capostipiti di vari generi grazie a uno stile compositivo complesso e articolato di cui sono debitori molte band del math rock di fine ’90/ inizio 2000 e tanto della musica alternativa recente, in primis Black Country, New Road. Uno stile in cui le chitarre intricate accompagnano melodie vocali che alternano passaggi melodici a punti parlati, utili a definire un modo di fare musica e parole perfetto per descrivere la provincia americana e le sue desolazioni. Come molti altri esempi disorganici, gli Slint hanno prodotto poco e dovuto aspettare per emergere dalle acque fornendo, però, un immaginario differente, alternativo.

L’ibridazione è uno dei caratteri fondamentali della cultura contemporanea giapponese. Se il primo tentativo di intromissione occidentale con i trattati ineguali di fine ‘800 aveva portato il Giappone e avversare con forza le potenze colonialiste, l’orrore della bomba atomica e l’introduzione di una costituzione imposta hanno trasformato l’antropologia nipponica in una macchina in grado di adattarsi non solo a politiche e forme economiche occidentali, ma anche a mode, usi, costumi e influenze culturali. In sostanza, senza tralasciare i caratteri fondanti e i tratti distintivi della loro cultura, i giapponesi sviluppano un’incredibile capacità di adattamento, assimilando i nostri codici narrativi e ibridando coscientemente parte delle loro arti, proponendo così al mercato globale quella che tecnicamente viene definita “cultura controegemonica” . Quando i giapponesi ibridano consapevolmente, il risultato è quasi sempre strepitoso. Il miglior lavoro del 1996 è “Long Season” dei The Fishmans, un album costituito da un’unica pièce musicale in crescendo, diversa dai ritmi funky, dub e reggae dei lavori precedenti del gruppo, e con una particolare predilizione per i suoni più eterei della loro produzione, in questo caso radicalizzati in un album che diventa una vera e propria opera musicale. Il giro di pianoforte ripetuto, la voce dalle tonalità altissime quasi strozzata, la perfetta commistione tra i ritmi fluidi di basso e gli inserti elettronici completati da un tappeto sonoro di batteria veloce e inserti orchestrali, sono gli ingredienti di un album che è un piacere scoprire e approfondire. L’unica traccia, “Long Season”, è stata suonata dal vivo per intero durante l’ultimo concerto dei The Fishmans in formazione originale, immortalato nel live set “98.12.28 Otokotachi no wakare” (un addio di uomini), prima della scomparsa del leader Shinji Sato.

Beth Gibbons of Portishead performs at the Vic Theater in Chicago, Illinois, April 25, 1995. (Photo by Paul Natkin/Getty Images)

Ogni decennio ha i suo gruppi notturni, band che sembrano definire a livello sonoro le notti di determinati spazi urbani e non. Dal rilascio di “Dummy “nel 1994, i Portishead raccontano la notte con chitarre distorte e ondeggianti, ritmi ovattati di batteria, voce spezzata e fragili violini, creando un’esperienza sonora ombrosa e riflessiva. Le grandi hit dell’album preannunciano un’evoluzione che si concretizza in “Portishead“ del 1997 dove se da una parte il gruppo guarda ai suoni alla nuova scena musicale nera (in brani come “Humming”” ed Elysium”), rappresentata in primis da Lauryn Hill ed Erikah Badu, dall’altra riprende classici del rock alternativo, come in “Over”, dove la chitarra ripetuta ricorda i suoni secchi di “The Velvet Underground & Nico”. All’Inghilterra esplosiva dell’era Tony Blair, i Portishead hanno risposto con il buio e la loro influenza è gigantesca, dai ritmi cadenzati del trip hop fino ad arrivare alle sonorità di gruppi più recenti come London Grammar.

Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 un palazzo brucia nel centro di Sarajevo. È la Vijećnica, la sede della Biblioteca Nazionale, ed è stata appena rasa al suolo dall’esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina mediante l’utilizzo di bombe incendiarie. Cittadini e bibliotecari cercano di portare in salvo il maggior numero di libri possibile. Il rogo della Biblioteca Nazionale di Sarajevo verrà poi riconosciuto come il più grave atto di distruzione premeditata di una biblioteca nell’epoca contemporanea. Ed è così che nasce Cupe Vampe dei C.S.I.: le chitarre azzoppate di Zamboni; il violino da 30 mila lire suonato da Canali che si insinua negli spazi vuoti lasciati dagli altri strumenti, fragile come le terre devastate dalle atrocità; il salmodiare straziante di Ferretti, con un inizio da far venire i brividi: di colpo si fa notte, s’incunea crudo il freddo. La città trema, livida trema. 

Il Consorzio Suonatori Indipendenti, più che una semplice band, è un’autentica antropologia. Giorgio Canali porta con sé i suoni acidi e taglienti delle sue chitarre. Zamboni apre le melodie con un’atmosfera spirituale che parte da Reggio Emilia, passa per Berlino e arriva fino alle valli della Cambogia. La conversione religiosa e ideologica di Giovanni Lindo Ferretti, nonostante un personale periodo di dubbi e nuove illuminazioni, lo rende ancora più lucido nei commenti politici sull’alienazione lavorativa dell’uomo alla fine del millennio (Unità di produzione) e nella descrizione dell’incessante vagare umano attraverso la storia e lo spazio, come nel brano “In Viaggio” (in particolare nella versione acustica, con tocco mistico, presente nell’album live “In quiete” del 1994). Ginevra Di Marco con la sua voce è in grado di portare le melodie su una tonalità irraggiungibile per il baritonale Ferretti, caratterizzando i momenti più lisergici nella discografia del gruppo; la sezione ritmica di Maroccolo avanza spesso come un monolite indistruttibile sapendo in modo intelligente quando e come fermarsi per assecondare le parti più leggere nella produzione dei CSI. 

Se ci si pensa, i gruppi proposti sono tutti il risultato di una commistione di fatti e storie. Non hanno una genesi esplosiva, come nemmeno i loro pezzi o album, ma si determinano con lentezza guardando, volenti o nolenti, al passato o al contesto storico di appartenenza. Un elemento fondamentale nel concetto di iconico, come detto, è la plasticità spaziale. Questa plasticità, teoricamente il dialogo che si crea tra il soggetto e lo spazio circostante, assume nel caso della produzione artistica un’interpretazione ulteriore, e cioè il rapporto degli artisti con la memoria culturale che li ha formati. Tutti gli esempi proposti sono iconici perché rispettano questo requisito. 

Per terminare con una metafora tennistica, in onore di David Foster Wallace, il tennis degli anni ’90 non è riducibile ad Andre Agassi. Il tennis degli anni ’90 sta nel filo conduttore che determina l’evoluzione del rovescio incrociato a una mano che parte da Edberg, si evolve in Sampras e sfocia nella perfezione, iconica, di Roger Federer

Si tratta di completezza, memoria, iconicità. 

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