Barbie: la trasformazione di un’icona

Barbie: la trasformazione di un’icona

I’m a Barbie Girl, in the Barbie world, cantavano gli Aqua nel 1997 in una hit che è arrivata fino alle contemporanee serate alcooliche di chi all’epoca era in fasce, ma anche di chi addirittura ancora non c’era. E, aggiungerei, che oggi è cantata come mai prima d’ora. Ma cosa significava, e soprattutto cosa significa oggi, essere una Barbie Girl? Qual è il portato sociale, politico e culturale che quella che è nata come una semplice bambola – ma è diventata nel tempo a tutti gli effetti un’icona – portava e porta ancora con sé a distanza di sessantaquattro anni dalla sua creazione? Queste domande sono state spunto di innumerevoli riflessioni più o meno autorevoli, e da quando è stata data l’ufficialità relativamente alla produzione di un film sulla più celebre bambola del mondo sono state poste da chiunque a chiunque, nell’attesa di scoprire quali risposte vi avrebbe dato la regista Greta Gerwig. E il tanto atteso momento è finalmente arrivato.

Chi è Barbie?

Siamo a Barbieland, una realtà matriarcale nella quale i toni del rosa regnano sovrani tanto quanto le Barbie che la gestiscono. Ognuna di loro è caratterizzata da scelte professionali e di vita ben definite, e quindi Barbie è presidente, è dottoressa, è fisica, scrittrice, giornalista. E c’è perfino Midge, l’amica perennemente gravida che, per inciso, da bambina avevo e adoravo. Ognuna ha il proprio fondamentale ruolo nella società, la propria bellezza e la capacità di divertirsi oltre che di essere professionale. Si tratterebbe a tutti gli effetti di donne complete e soddisfatte delle loro vite, se non fosse per il fatto che si tratta di bambole. E poi ci sono i Ken, che sono… beh, sono solo Ken. A Barbieland ogni giorno è bello come quello prima e quello prima ancora, così come tutti quelli che verranno, almeno per Barbie.

Tutto ciò finché a Barbie stereotipo, colei che rappresenta la bellezza nella sua forma più adeguata ai canoni estetici dominanti, cominciano a succedere cose che scombussolano la sua routine da bambola: l’acqua invisibile della doccia è fredda, il toast bruciato, i piedi perennemente sulle punte le si piantano a terra come quelli delle bambole che somigliavano alle Barbie ma non lo erano davvero, sulle gambe le spunta la spaventosissima cellulite. E, soprattutto, comincia a pensare alla morte. No, nel mondo fantastico di Barbieland non c’è spazio per i pensieri bui. Tocca allora proprio a Barbie stereotipo, quella il cui carattere distintivo non è una particolare capacità ma l’aspetto fisico, fare un viaggio in auto, bici, camper, motoslitta, nave e rollerblade per arrivare nel mondo reale e capire quale sia il problema che la sta affliggendo, ovviamente insieme al suo inseparabile Ken che proprio non riesce a vivere senza di lei. Ma mentre Barbie si mette alla ricerca della triste bambina che gioca con lei, rivelatasi poi in realtà una donna adulta fatta, formata e triste, Ken scopre il meraviglioso mondo del patriarcato e pensa bene di portarlo proprio a Barbieland in quello che è a tutti gli effetti un esempio delle missioni civilizzatrici tanto care agli Stati Uniti. Riusciranno le Barbie e due umane a ristabilire gli equilibri del fantastico mondo dei giocattoli Mattel? Questo non ve lo dico, ma potete immaginarlo da solǝ.

Un’attesa non disattesa

Abbiamo aspettato Barbie a lungo guardando e riguardando i trailer, ascoltando Dua Lipa a profusione e comprando vestiti e accessori rosa per presentarci al cinema con il look giusto. E, una volta sedutǝ sulle nostre comode poltrone, ci siamo ritrovatǝ davanti una storia tragicomica che deve necessariamente essere vista con spirito critico per essere compresa per davvero. Il racconto che Greta Gerwig porta sullo schermo altro non è che quello della società patriarcale in cui viviamo, ma in versione capovolta ed esasperata – anche se spesso e volentieri l’esasperazione patriarcale è proprio l’essenza stessa della nostra quotidiana realtà. Un genere occupa le posizioni di potere e un altro tende a essere considerato un mero oggetto, vi ricorda qualcosa? Le dinamiche portate avanti provocano in più di un’occasione risate di gusto e sorrisi dolceamari proprio perché, per quanto diverso dal nostro, il mondo di Barbieland è qualcosa che conosciamo e che in qualche modo ci appartiene. Ed è proprio attraverso la risata che il film stimola in chi lo guarda una riflessione, sempre che sedute sulle poltrone ci siano persone pronte a cogliere l’ironia del mondo in cui viviamo.

La vera carta vincente di questo film che si ripropone di essere un manifesto femminista contemporaneo sta infatti non tanto – o comunque non solo – nella scelta apparentemente paradossale di ambientarlo in un mondo fanciullesco totalmente rosa, quanto nel modo in cui la narrazione viene portata avanti. I livelli si sovrappongono e fondono, la voce narrante parla con la stessa lineare semplicità di Barbieland e contemporaneamente del mondo reale, della Mattel e di Margot Robbie come se fossero entità, persone e personaggi sullo stesso livello. Con Barbie non si parla solo di patriarcato: l’industria cinematografica critica se stessa dall’interno, e la Mattel sottolinea come le sue stesse scelte di produzione siano basate sul vile denaro e non sull’amore per i bambini e le bambine di tutto il mondo. Si dà vita a un racconto che è una vera e propria ironica metanarrazione, cosa che ho personalmente adorato. E che avrei adorato ancora di più se fosse stata portata avanti fino alla fine senza interruzioni. Perché no, non c’è bisogno che a un certo punto l’ironia si interrompa e arrivi qualcuno a spiegarmi per filo e per segno ciò che il film in realtà sta dicendo già da più di un’ora.

Un’icona passata che vuole diventare contemporanea

Ma nel mese in cui Billy, la vostra rivista cinematografica di fiducia, si dedica alle icone non possiamo tralasciare un aspetto fondamentale di questo film: la sua protagonista. Barbie – nello specifico Barbie stereotipo – nasce nell’ormai lontano 1959 con la volontà di portare una piccola rivoluzione nel mondo dei giocattoli, quella di una bambola non da cullare e accudire, ma con la quale identificarsi. Con Barbie le bambine non dovevano pensare a fare le mamme, ma a vedersi nel futuro. Gambe lunghe e sottili e vitino di vespa, quello che con più o meno consapevolezza i signori Handler stavano creando era in realtà non un’ispirazione, ma un modello da seguire quasi come un dogma. Un modello, però, puramente estetico.

Negli anni Barbie si è evoluta nel fisico e nella “personalità” dando spazio alle attitudini, ai desideri e ai sogni di chi con queste bambole passava il suo tempo a giocare. È in quest’ottica che nasce la professionalità di Barbie, venduta vestita di tutto punto come una dottoressa o una veterinaria, come una cantante pop o una pilota di aerei, come una dog sitter o una donna appena uscita dal reparto maternità, con tanto di accessori che le bambine di tutto il mondo sognavano di portare con sé in futuro a grandezza naturale. Il fatto però è che, per quanto ci provasse, Barbie ha continuato a essere vista non come una professionista indipendente ma come una donna bionda dai languidi occhi azzurri e dal sorriso perfetto, come la rappresentazione di quel canone di bellezza al quale bambine e donne avrebbero dovuto aspirare. E che oggi, per grazia divina, comincia a stare stretto.

E allora cosa succede? Che fine fa Barbie? La buttiamo nel cassettone delle cose che non usiamo più? No, Barbie si reinventa, o almeno ci prova. E allora Barbie è bionda ma anche mora, bianca ma anche nera, in piedi ma anche seduta sulla sua sedia a rotelle. Barbie ha i capelli rossi, le lentiggini, gli occhi a mandorla. Cerca di compiere il salto che la rende non più un’icona alla quale aspirare, ma la rappresentazione dell’importanza dell’unicità e dell’autodeterminazione. E questo il film lo afferma e lo ribadisce in quello che sicuramente è un inno al femminismo, ma non si può negare che sia anche il tentativo di una grande azienda di trasformare e far rivalutare il proprio prodotto di punta. Ci riesce? Mi sa che per capirlo davvero ci tocca aspettare di scoprire con cosa giocheranno i bambini e le bambine di domani.

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