Strade perdute

Strade perdute

È molto facile perdersi lungo le strade perdute che David Lynch disegna all’interno del suo cinema — probabilmente da sempre, soprattutto nelle sue ultime opere.

I suoi racconti sono fatti di segni, sogni e simboli, di un rapporto con la Realtà che non è mai piano e lineare, in cui è spesso la percezione, o la negazione, a condurre il viaggio e, a tratti, a costruire il senso, in una fruizione che diviene esperienza anche nel suo farsi.

Strade perdute (Lost Highways) è un film del 1997 ed è, almeno in parte, l’inizio e il manifesto di una fase compiutamente nuova del cinema di Lynch, in cui il perturbante, in senso freudiano, diviene elemento che plasma non solo le modalità narrative ma anche, ovviamente, la loro rappresentazione formale, saldando significato e significante. Pulsioni sempre presenti nel cinema del regista americano, certo, ma che nella trilogia che inizia con Strade perdute, appunto, prosegue con Mulholland Drive e si conclude, per il momento, con Inland Empire, trova la sua espressione piena e la sua sistemica rappresentatività.

Strade perdute è (apparentemente?) un rompicapo, uno dei film più misteriosi di Lynch, denso di insistenze ingiustificate, di ribaltamenti di senso in cui il reale è più onirico del sogno, costellato di segni ambigui eppure illuminanti, attraversato da elementi del cinema di genere come il neo-noir iperrealista degli anni ‘90, inondato da riferimenti anche pittorici che hanno Hopper e Bacon come poli inconciliabili.

Il film è un nastro di Möbius, che è sostanzialmente una superficie non ordinaria con una sola faccia e un solo bordo e che quindi è percorribile «totalmente con continuità sia sulla faccia “esterna” sia su quella “interna” senza attraversare né il bordo né la superficie. Se si traccia con una punta scrivente una linea media lungo tutto il nastro partendo da un punto casuale, si nota che la traccia si snoda sull’intera superficie del nastro, che è quindi unica; si ritorna quindi al punto di partenza, ma dalla parte opposta della striscia».

Ma è anche un percorso psicanalitico, come ha suggerito nella sua lettura — la più affascinante — il filosofo Slavoj Žižek, in cui il Reale è inaccettabile e quindi viene negato e trasformato, attraverso fughe, mutazioni persino materiche, proiezioni psicotiche e rimozioni protettive, poiché il contatto con la realtà è ingestibile e inaccettabile, salvo ripresentarsi fatalmente nel momento in cui il sogno non può che concludersi.

E da questo punto di vista, Strade perdute è un film estremamente attuale, poiché è una sfida alla società borghese, ai suoi desideri egoistici e alla sua reificazione dell’essere e, soprattutto, al patriarcato e ai suoi corollari di maschilismo tossico. Una sfida in cui tutto si ripete e le cose tornano all’inizio come significazione perpetua, in cui il maschio bianco eterosessuale vive la sua crisi attraverso la violenza e il rifiuto ipocrita dei suoi atti, trasformandosi in uno stereotipo maschilista a cui tutto è concesso, finché — di nuovo — non sarà il Reale a richiamare alla consapevolezza di un’esistenza patetica.

Infine Strade perdute è un film che non può essere semplicemente fruito. Occorre emanciparsi dall’incubo dell’attesa dell’intrattenimento e concedersi l’euforia della partecipazione alla percezione, poiché si tratta di un viaggio introspettivo dentro i nostri enigmi e le nostre pulsioni, in cui abitare anfratti psichici che non possono essere semplicemente spiegati.

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