I 50 anni di L’Esorcista, il capolavoro di William Friedkin.

I 50 anni di L’Esorcista, il capolavoro di William Friedkin.

Chiediamoci come ci si può porre oggi davanti a L’Esorcista, il capolavoro di William Friedkin che ha compiuto da poco il 50° anniversario dalla sua prima proiezione. Per l’occasione il restauro presentato alla scorsa edizione del Festival di Venezia e distribuito a fine settembre nei cinema italiani ci lascia l’opportunità di riscoprirlo. Il suo celebre incipit è qualcosa che lascia ancora esterrefatti: un’escursione visiva e sonora ci porta tra le rovine e i mercati assordanti dell’Iraq, ed è solo l’inizio di un febbricitante stato di insicurezza che percuote tutto il film. Un meridiano demoniaco traccia un fil rouge dal rossore cangiante del Medio Oriente alle insospettabili atmosfere urbane di Georgetown. 

La paura a cui ci induce il film però non è solo da ricercare nella pregevole resistenza al tempo dei suoi pionieristici effetti speciali, purtroppo oggi a rischio di facili liquidazioni per la loro percezione pupazzesca, spesso e volentieri macchiata da anni di parodie e, in epoca social, da meme che portano gli spettatori più giovani ad approcciare con un sorriso le scene “più” iconiche. La paura quindi del film è da leggere altrove, al di fuori di quelle scene emblematiche che tutti già conosciamo, anche tra chi ancora ha la fortuna di vederlo oggi per la prima volta.

C’è prima di tutto il senso di spaesamento costante che colpisce ed emerge latente dalle strade di Georgetown, alle spalle dei drammi famigliari di padre Karras e Chris MacNeil, in quella fugace apparizione demoniaca che si porta dietro un senso di disfacimento sociale quasi realista, raccogliendo attorno a se l’immagine di una fotografia urbana dell’epoca. Il merito di Friedkin, e solo lui poteva farlo in quel modo, è quello di aver preso il romanzo di William Peter Blatty (anche produttore del film) e di averci costruito un film dell’orrore che raccoglie le pulsioni esterne del reale, lo distilla fino a chiudersi gradualmente tra le mura di casa di un vero e proprio dramma familiare. L’esorcista racconta in fin dei conti la sopportazione materna di una donna incapace di credere, con i propri occhi (che sono quelli del pubblico), alla concreta possibilità di una possessione fisica nel corpo vulnerabile della figlia adolescente. Il cinema è quindi il solo linguaggio potenzialmente più lungimirante per poter materializzare questa “incredibile” vicenda. 

Come Gli Uccelli di Hitchcock dieci anni prima, come Lo Squalo qualche anno dopo, anche L’Esorcista entrò di diritto nel pantheon di un cinema di rottura: un cinema del reale/irreale che scommette sul potere di plasmare uno sguardo oltre i confini del filmabile. È un “film sul senso della fede”, come disse il regista all’epoca, ma un’affermazione che rischia di corroborare la tesi secondo cui sia un film reazionario. Semmai, dal canto nostro, è un senso della fede nel cinema che emerge portando il soprannaturale all’interno di una cornice iperrealista: è quindi un atto di fede quello di lasciarsi trasportare nel dolore incredulo dei personaggi magnificamente interpretati da Ellen Burstyn e Jason Miller, senza dimenticare i comprimari che hanno reso iconica la ballata finale dell’esorcismo, il padre Merrin di Max von Sydow (all’epoca nel pieno della sua seconda vita hollywoodiana) e la Reagan della giovanissima Linda Blair, all’epoca l’unica scelta possibile voluta da Friedkin per trasfigurare col suo corpo innocente un intero ordine iconoclastico.

Dopo cinquant’anni L’Esorcista è ancora qui con tutta la sua carica dinamitarda contro il “buon senso” degli spettatori contemporanei più smaliziati. Si ride magari davanti alla testa contorta di Reagan, ma si esce dalla visione inevitabilmente nauseati, storditi e vulnerabili come pochissimo cinema dell’orrore contemporaneo riesce ancora a fare oggi. Per fare alcuni titoli (ma non gli unici), Rob Zombie con “Le Streghe di Salem” e David Robert Mitchell con “It Follows” sono forse i registi che meglio di altri hanno saputo raccogliere l’eredità di film come L’esorcista e l’altro fondamentale film demoniaco dell’epoca quale Rosemary’s Baby di Roman Polanski; due film che hanno superato il loro mezzo secolo di vita ma che continueranno a stordire in tutta la loro smagliante modernità linguistica e tecnica. Dispiace tuttavia sottolineare l’unico neo alla recente versione restaurata che pecca di alcune sequenze finali evidentemente mal rimasterizzate, diversamente dall’egregio lavoro complessivo che rende tuttavia ancora sconvolgente lasciarsi travolgere dai colori della fotografia di Owen Roizman e dalle celebri musiche di Mike Oldfield, tra le quali si annida un peculiare lavoro di sound design da cui è impossibile liberarsi, come una possessione che ci induce a guardare con sospetto le nostre uniche e intime certezze. Già “solo” per questo William Friedkin ci manca tantissimo dalla sua scomparsa avvenuta questa estate, impedendogli di celebrare con noi a Venezia il 50° compleanno della sua pietra miliare e di presenziare alla prima nazionale del suo ultimo e, purtroppo, postumo The Caine Mutiny Court-Martial. 

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