Il corpo politico di Gian Maria Volonté

Il corpo politico di Gian Maria Volonté

Anni fa, durante uno di quei loop adolescenziali che ti portano a consumare film su film di un regista x o con un’attrice y, lessi un articolo che chiudeva dicendo “Noi, a Gian Maria Volonté, non ce lo siamo mai meritato”. Poco dopo ne lessi un altro che finiva con “Gian Maria Volonté dovremmo dimenticarcelo”.  Ricordo di esser stata abbastanza d’accordo con queste chiusure un po’ sconsolate ed estremamente severe, che dicevano poco dell’attore e molto di quei nostri tempi. 

Ma perchè non ce lo siamo mai meritato, uno come Gian Maria Volonté? Perché, forse, è stato troppo per noi. Troppo politico in un’epoca in cui cerchiamo nei film una via per disconnetterci da una realtà appesantita? Troppo professionale? Troppo radicale nelle sue scelte e nei suoi rifiuti (per citarne uno, Il Padrino di Coppola)? Andiamo in ordine: oggi conoscere l’attore anima del cinema d’impegno civile non è così scontato; è facile che le generazioni più recenti (quelle nate a cavallo e dopo la sua morte, per intenderci) ignorino la centralità del suo ruolo nella storia cinematografica italiana, forse anche perché il cinema d’impegno civile fatica e non poco a ritagliarsi uno spazio nelle diete mediatiche odierne e nelle programmazioni scolastiche. I motivi sono molti, e nessuno di questi ha a che fare (del tutto) con l’essere più disimpegnati e de-politicizzati di un tempo. Forse Gian Maria Volonté era troppo anche per quell3 che sono venuti prima di noi. Per essere clementi, forse i contesti – politici e cinematografici – sono profondamente cambiati al punto da rendere quasi inutile ragionare in termini di “meglio prima”. 

Forse non ce lo siamo meritato, uno come Gian Maria Volonté, perché non siamo stat3 abbastanza coraggios3 nel raccogliere e nel far fermentare l’eredità che ci ha lasciato con i suoi film e con il suo modo di intrecciare lavoro e impegno politico. Per lui, scegliere un ruolo voleva dire acquisire una posizione. La perseveranza dei propri principi, la militanza politica che ha portato nelle piazze frequentate (il PCI fino al ‘77, poi il PDS) e sui set nei quali ha lavorato (da Il terrorista di De Bosio a Sacco e Vanzetti di Montaldo, da La classe operaia va in Paradiso di Petri a Il caso Moro di Ferrara), la pretesa che il cinema servisse a svelare i meccanismi inceppati di una società complessa, trasformandosi in strumento di conoscenza, cambiamento e di immaginazione politica.  La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri è, secondo me, tra i più emblematici. Per Volonté, tutto il cinema era politico a prescindere dai generi, perché ogni film era politico nel suo assecondare o contestare l’ordine delle cose. E proprio lui era quello che, attraverso i suoi personaggi, contestava. Il suo era un corpo politico in cui ha saputo sintetizzare il cittadino Volonté e l’attore Volonté, rendendo quasi impossibile una distinzione, probabilmente, inesistente. Lo disse Gianni Minà durante una puntata di Blitz: era il volto della contestazione italiana che quasi si annullava nei personaggi, da Giordano Bruno a Vanzetti, da Lulù Massa ad Aldo Moro. Ha saputo abitare le storie politiche di uomini pubblici e non (filosofi, operai, anarchici, democristiani), ci si è calato dentro con fare camaleontico, ricercando attraverso di loro percorsi di senso. Nonostante questo suo immergersi nelle storie, Volonté riusciva anche a conservare una visione molto pragmatica e realistica del mestiere dell’attore: sosteneva l’esistenza di strumenti e strategie adatte per ognuno dei ruoli interpretati, e l’attore – per quanto confondibile con il suo personaggio – probabilmente è una persona come tante altre che sta pensando a dove andrà a cenare dopo. 

Il cinema di e con Volonté, dunque, era immaginazione e pratica dell’impossibile, un movimento magmatico e una prosecuzione dell’attivismo politico che s’intrecciava con l’arte. Un sodalizio nato sul terreno fertile di una società altamente politicizzata, militante e organizzata in partiti che lo stesso Volonté, a un certo punto della suo attivismo, ha contestato. Come insegna molto bene il cinema, la forza di certi risultati è anche frutto del lavoro di più menti e mani, dunque il cinema di e con Volonté è anche il risultato di una sinergia tra le parti. L’incontro di Volonté con registi come Petri, Montaldo e Rosi, ha fatto sì che certe storie potessero colpire e segnare il nostro immaginario. Certo, il suo non è un cinema che oggi risulta immediato e facile da assimilare, sono cambiati i codici, i linguaggi del cinema, l’idea stessa di ciò che è la politica e l’attivismo politico. Passatemi il termine, ma sono storie apparentemente “lontane” dal nostro tempo, con la forza, però, di intercettare nodi del presente. Penso ancora a La classe operaia va in Paradiso e a quel monologo di Lulù Massa che continua ancora oggi a essere sintesi del nostro rapporto con il lavoro, a Giordano Bruno e al ruolo precario della scienza. 

Non so dire se Volonté ce lo siamo meritato o meno, ma so di per certo che se non l’avessimo avuto il nostro cinema si sarebbe perso qualcosa di grande. Di qui la necessità e l’urgenza di restituirgli lo spazio che si meriterebbe, nei cineforum e nelle rassegne, a scuola e nei palinsesti delle piattaforme. Nel nostro piccolo ci proviamo: di Gian Maria Volonté ne parlerà Matteo Lolletti nel primo appuntamento di TraumFabrik, giovedì 7 alle 19:00 al Diagonal Loft Club.

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