INDOCILI – Intervista a Saverio Cappiello

INDOCILI – Intervista a Saverio Cappiello

Quattro cortometraggi che immergono il pubblico nel “sentire” complesso e articolato delle generazioni contemporanee. Simone Bozzelli con Amateur (2019) e Giochi (2021), Saverio Cappiello con Mia Sorella (2019) e Faccia di cuscino (2022) – due giovanissimi nomi del cinema odierno, promesse di un cinema altro in grado di parlare con il suo pubblico e del suo pubblico – hanno scritto quattro storie che – casualmente – dialogano tra loro e articolano un unico discorso sincero sugli affetti, sull’identità e sui corpi che abita. Sono questi i cortometraggi scelti per il terzo atto di INDOCILI, la rassegna dedicata alle migliori promesse under 35 del cinema indipendente italiano. Un viaggio nell’adolescenza e nella giovinezza dei nostri tempi, a stretto contatto con alcuni dei temi più sentiti da chi quell’età la sta vivendo.

Lavori che parlano di corpi vivi e pensanti, alle prese con la ricerca del sé e dell’altr*, e del sé nell’altro. C’è un rischio quando ci si addentra nel racconto di una generazione: fare un cinema didascalico, superficiale, impreciso e non rappresentativo. In questo caso, invece, Bozzelli e Cappiello hanno scritto delle storie precise che collimano con il corredo emotivo della loro generazione. Non è né semplice né banale, sopratutto in un’epoca in cui la grammatica sentimentale cambia e le emotività si articolano in forme ogni volta diverse all’interno della stessa generazione, in un’epoca in cui ad essere complessa è la stessa distinzione tra generazioni. Con Mia Sorella e Faccia di cuscino di Saverio Cappiello questa complessità traspare, l’età catturata negli sguardi dei protagonisti che vivono – in entrambi i corti – una condizione di sofferenza, corpi alle prese con un distacco non voluto che apre a riflessioni sulla percezione del sé, anche rispetto all’altro. 

Ci sono dei punti molto chiari nelle storie di Cappiello che permetto al pubblico di sentisi a proprio agio con la narrazione: la definizione della propria identità personale e le contaminazioni con la dimensione del gruppo, un soggetto plurale che innesca risposte e controrisposte, interiori ed esternalizzate. Ci sono i margini, geografici e umani, aree di confine in cui si articolano storie dalle eco meno forti, ma perfettamente in grado di fornirci una fotografia del reale. E c’è anche una mascolinità evidente ma meno imperante di quel che possa sembrare. C’è sorta di conflitto che fermenta nei due lavori di Saverio, rendendoli così drammaticamente sinceri e reali, fatti di immagini essenziali e senza nulla di troppo, di dialoghi che riecheggiano forti anche grazie a un linguaggio autentico e imprescindibile. 

Con Saverio Cappiello abbiamo scambiato qualche riflessione in vista delle proiezioni di due dei suoi corti al Cinema Beltrade di Milano, per il nuovo appuntamento di INDOCILI di martedì 20 febbraio. 

Che ruolo ha la periferia rispetto alle storie che hai raccontato nei tuoi corti? Non mi riferisco tanto a nessi di causalità, quanto alla contaminazione che potrebbe esserci tra la periferia, le sue dinamiche e i percorsi affettivi che hai scelto di raccontare con le storie di Mia sorella e Faccia di cuscino.  

Mi fa piacere che la periferia si percepisce come elemento caratterizzante dei miei corti sebbene io credo di non fare nessun tentativo nel portarla in primo piano. Infatti, cinematograficamente parlando, i primi piani sono tutti dedicati ai protagonisti che però al tempo stesso sono evidentemente impregnati dalle logiche che la periferia porta con sé. A mala pena si riesce a distinguere un palazzo sullo sfondo da un altro, una strada dall’altra. La periferia, sin dall’adolescenza, l’ho percepita come un luogo feroce e con delle regole da sapere. Forse è di questa selvaggia regola che vado alla ricerca quando realizzo i miei film.

In tutti i corti che saranno proiettati a INDOCILI c’è un minimo comune denominatore che attraversa in modi diversi le storie: il tentativo di giocare e riarticolare il concetto di identità in modo multiforme e totalmente libero. Questo li rende dei corti dei nostri giorni, nel senso che parlano delle complessità e del sottobosco di sentimenti, emozioni e questioni radicalmente contemporanee. 

Crescendo mi sono reso conto che l’identità non è solo una questione personale. Mi spiego, quando si prova a rispondere alla domanda “Chi sono io?” è difficile, almeno nel luogo in cui sono cresciuto, rispondere senza tirare in causa quello che gli altri pensano tu sia. Sembra strano pensare che l’identità, la cosa più privata che abbiamo, in realtà è costantemente messa in discussione e giudicata dagli altri e pertanto dipenda tanto dalle persone che hai intorno. In un certo senso è impossibile conoscere sé stessi ed esserne in pace senza vedersi nel riflesso della società che ci circonda. A volte tra l’identità e la società ci possono essere delle distanze che cerchiamo istintivamente di colmare per stare bene. 

Nei tuoi corti il linguaggio è un elemento predominante, il lessico che usano i protagonisti assorbe molto dalla periferia (in senso non solo geografico): è diretto, spigoloso, oggi per molt* sarebbe difficilmente digeribile. Allo stesso tempo, a me è sembrato una porta d’accesso alle storie che stavi raccontando, o mi sbaglio? 

La “lingua madre” dei miei genitori è il dialetto, così come lo è per tante altre persone nelle zone in cui vivo. Per me, che ad esempio sono cresciuto parlando più italiano, il dialetto è ancora il modo in cui penso e fa prepotentemente parte di alcuni stati d’animo o condizioni quali la rabbia, la sessualità, l’ironia per citarne alcuni. Togliere il dialetto dai miei protagonisti significherebbe rinunciare alla naturalezza di questi sentimenti che perderebbero una grossa parte dell’immaginario. Credo sia il bello del cinema che uno spettatore venga portato fuori dalla zona di confort e spinto a immedesimarsi piuttosto che omologarsi e prendere sempre a prestito da un immaginario collettivo.

E sempre in merito al lessico e ai dialoghi, correggimi se sbaglio ma ho avuto l’impressione che proprio al loro interno si articolasse quasi una sorta di conflitto tra la forma e la sostanza. Da una parte un linguaggio intriso di un certo tipo di stereotipi, espressione di un certo tipo di mascolinità, dall’altra parte delle storie che – a modo loro – sembravano a disagio con quell’idea di mascolinità. Sullo sfondo il gruppo con le sue dinamiche di inclusione ed esclusione. 

Questa tua osservazione forse unisce tutti i punti precedenti. Il dialetto è per forza di cose instillato in una vecchia logica machista, al tempo stesso il mondo è cambiato e in termini di diritti civili ci sono stati grandissimi progressi che sono entrati, anche se in maniera più misurata, anche nelle periferie. La lingua che i protagonisti dei miei film parlano non si è ancora adeguata a questo nuovo mondo, eppure in questi forti contrasti si riesce a intravedere un sorta di equilibrio tra forma e sostanza che, seppure in disaccordo, per qualche motivo riescono a convivere serenamente. 

Oltre periferia e linguaggio, dunque, il gruppo è un altro elemento chiave. Soprattutto in Faccia di cuscino, a volte, i ruoli di oppressore – vittima” tendono a sfumare. C’è uno sguardo che hai prediletto e che, in generale, tendi a prediligere nei tuoi lavori? 

Io solitamente li definisco agenti e agiti. Agito è chi è spinto da qualcosa o qualcuno a compiere delle azioni ed è quindi una persona che è solitamente in una posizione di ascolto, agente è chi innesca qualcosa in qualcun altro e non per forza in maniera manipolatoria. A differenza di oppressore e vittima, a me piace usare questi termini perché non hanno univocità nel significato. Tutti a volte siamo agenti, altre volte agiti. Questo mi aiuta a cercare di non avere giudizi nei confronti dello specchio di realtà che racconto.

In virtù di ciò, come hai scelto gli attori? E loro come si sono trovati rispetto alle storie e ai ruoli di cui si sono fatti carico? Penso soprattutto ai più giovanissimi in Faccia di cuscino.

Partendo dal presupposto che nessuno degli attori ha mai visto una riga di sceneggiatura che ho scritto per questi film, io solitamente mi prendo un paio di giornate di prove con le quali metto in discussione quello che ho scritto. Io do degli input ai ragazzi aspettandomi da parte loro delle reazioni che molte volte corrispondono con quelle che avevo previsto, altre volte no. In questo caso do sempre ragione a loro e sono io eventualmente a riadattare la storia prima delle riprese e cercare di capire cosa questi cambiamenti comportano.
Questo modo di lavorare porta i ragazzi a non sapere esattamente che film stiano realizzando, sono loro ad unire i pezzettini man mano che recitano.

Martedì 20 Febbraio (H 21:50) saranno ospiti al cinema Beltrade i giovani registi Simone Bozzelli e Saverio Cappiello, a dialogare con loro l’associazione Tafano e 77 Magazine. Per partecipare si può prenotare il proprio biglietto su prenota@cinemabeltrade.net o acquistarlo di DICE.

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