Gloria!

Gloria!

Gloria! è un film che ha diviso e che per certi aspetti divide ancora. Ha diviso la critica e il pubblico a Berlino, con da una parte la stampa — o almeno la parte italiana della stampa — piuttosto contrariata, in certi casi per puro provincialismo, e dall’altra un pubblico entusiasta e decisamente in linea con la maggioranza della compagine internazionale della press. È un film che vince premi internazionali in giro per il mondo, con buona pace di chi sostiene che sia un film a cui manca il cinema, ed è un film che sta cambiando — vi piaccia o no — il cinema italiano.

Sia detto, e non solo per inciso, che la stragrande maggioranza delle persone che rifiutano il film, ossia non quelle persone che legittimamente lo criticano e vi aprono attorno un dibattito o un confronto, bensì quelle che invece lo respingono e che lo brucerebbero per indegnità cinematografica (come se Gloria! rappresentasse una lesa maestà della settima arte), ecco queste persone sono quasi tutte — sarà un caso? — rancorosi ed elitari cinefili eterosessuali, maschi, bianchi e cisgender.

Non è una nota di colore, non è neanche un mio capriccio compiaciuto, è un dato che si salda alla bellezza libera e selvaggia di Gloria!, alla sua fiabesca non conformità, al suo coraggio di esplorare territori che il cinema italiano contemporaneo non è neppure in grado di supporre, alla sua spettacolare imperfezione. Perché Gloria! è soprattutto un film che dialoga e dilaga con una forma e una sostanza che sono prepotentemente uno sberleffo favolistico alla presunzione (spesso patriarcale) di cosa debba essere il cinema, una vendetta in musica contro le restrizioni normative della narrazione contemporanea, così mascolinamente desiderante e così omologante nella sua forza intatta di discriminazione di genere, una forma e una sostanza, quelle di Gloria!, che si rivelano gioiose, sensuali, contagiose, vitalistiche, incarnate da un cast femminile e femminista di roboante giocosità e qualità, in cui, per inciso, spicca tra tutte Carlotta Gamba, e che si completa con un controcasting molto intelligente, se pensiamo a Paolo Rossi e a Natalino Balasso in ruoli dai colori opposti alle loro consuete cromie.

Gloria! è allora un pamphlet femminista felicemente pop, fatevene una ragione, che ha come unica reale pecca — ma è discutibile — un finale forse eccessivamente stratificato, non troppo preparato e per certi aspetti appena un po’ didascalico, tanto da poter essere sentito come contraddittorio. Ma fosse anche così, Gloria! resta comunque un film dinamico e corroborante che ha scene indimenticabili e tutt’altro che scontate, in grado di sovvertire le paludate attese di chi scambia la libertà per prevedibilità, l’impudenza per superficialità, la leggerezza per semplicismo.

Abbiamo tanto discusso della leggerezza necessaria delle immagini di — che so? — Yuri Ancarani, le abbiamo celebrate nonostante la loro intrinseca inconsistenza (e non sia detto in senso negativo, anzi) e lo abbiamo fatto perché comunque solleticano in maniera maschia il nostro narcisismo cinefilo e intellettualoide: ora io non capisco perché la lievità liberatoria di Vicario debba essere rinchiusa in un’ottusa e prudente pretesa di esplicita profondità, marcata complessità e rigida credibilità, come se il cinema non fosse — o non potesse essere — disordine e gioia rivoluzionaria.

Gloria! in realtà, io credo, spaventa come spaventavano i baccanali o un sabba, racconta del superfluo e del superabile, ricompone e vendica, e lo fa in maniera spudorata e — sì, che problema c’è? — anche ingenua, rispetto alla Storia e alle storie, in relazione (anche) agli uomini e alle loro edificazioni patriarcali, comprese quelle cinematografiche. E tutto ciò è imperdonabile.

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