Marco Bellocchio. La liberazione come morte?
Nell’esordio di Marco Bellocchio – il folgorante, clamoroso ed estremo I pugni in tasca (1965) – sembra non esserci possibilità di liberazione dalla cecità dei ricordi, dall’epilettico ritardo mentale che rende inutili agli occhi degli affetti, dalla mediocrità e dal cinismo arrivista e omologante, dalla morbosità incestuosa e autoreferenziale, dal narcisismo indulgente e lassista dei protagonisti del film. La necessità che la vita cambi, l’esigenza della speranza, pur sussistendo ossessivamente, non hanno soluzione, se non nell’autodistruzione. Una dissoluzione personale e familiare che trova limite solo nella morte, contemplata, agita o subita, laddove altrimenti tutto resterebbe immutabile.
Nell’ultimo film di Marco Bellocchio – il recente e scandaloso Bella addormentata (2012) – la vicenda di Eluana Englaro e della sua morte fanno da sfondo a storie intrecciate e intessute le une con le altre, i cui protagonisti possono essere associati sia ai personaggi de I pugni in tasca, sia, per questo, assimilati a un’unica grande famiglia. Ci si vuole liberare dalla dipendenza attraverso la morte o attraverso la volontà egoista e positivista di salvare chi l’ha scelta, si trova la preghiera per evitare la comprensione e l’accettazione, riversando sulla speranza il fallimento e annullando il presente, ci si appella alla coscienza quando questa stona con la disciplina (più o meno politica), e alla militanza in nome di un principio che diviene perversione ipocrita. Anche in quest’ultimo film di Bellocchio non c’è molta speranza di liberazione, se non attraverso la recisione dei rapporti, degli affetti, delle convinzioni.
L’Italia, nei quarantasette anni che intercorrono tra i due film, non è cambiata molto, se non in peggio. Il ruolo della famiglia borghese si è dissolto anche là dove cercava di essere – e di rappresentarsi – diversa, finendo di essere un simbolo e divenendo immanente al reale, in un percorso squisitamente sociale.
È un’Italia illiberabile, colpevole, la cui unica speranza è l’annientamento, il nulla come sollievo. Aldo Moro, in Buongiorno, notte (2003) cammina libero per le strade di Roma in un sogno che albeggia quando tutto è perduto e la realtà racconta di un Moro libero solo come cadavere (storico, politico, umano…).
La libertà, l’unica libertà possibile è qualcosa che si struttura nella perdita irrecuperabile, nell’abdicazione definitiva, come può essere la rinuncia alla verginità della Maddalena de La visione del sabba (1988), il rifiuto della parola come compromesso che adotta Massimo ne Il sogno della farfalla (1994), il quale sceglie (sogna?) un destino e un volo compiuti in un solo giorno, o del rigetto dei privilegi dell’istituzione – ma anche della capacità della ribellione di farsi agito – nella parabola politica e brechtiana di Nel nome del padre (1971).
Forse nessuno ha mai osato tanto.