Fight Club. L’alter come salvezza
Fight Club, USA, 1999, David Fincher (R.), Jim Uhls (Sc., dal romanzo di Chuck Pahlaniuk)
Lo stretto legame, quasi simbiotico e allo stesso tempo conflittuale, che si crea tra una pellicola e le pagine che l’hanno ispirata, il filo sottile che divide la traduzione dal tradimento, è per sua natura riconducibile (etimologicamente) a ciò che lega e divide l’ego dal proprio alter. La genesi di un film (che sia ispirato dalle pagine di un romanzo) crea uno sdoppiamento della narrazione (letteraria e cinematografica) che, per quanto a volte non cercata o voluta, molto spesso dà vita a qualcosa che tende ad allontanarsi da punto di partenza. Il cinema e la letteratura usano, ovviamente, due linguaggi che sono completamente diversi l’uno dall’altro, ma la loro natura, specialmente negli ultimi anni, e proprio a causa delle loro diversità, sembra essere quella di Jekill e Hyde: fanno parte della stessa storia ma ne sono protagonisti in modo diverso, attivamente e passivamente, e poi viceversa. Lo stesso tipo di rapporto sembra legare i protagonisti di Fight Club che, come due moderni Jekill-Hyde, dividono lo stesso corpo e gli stessi legami ma con un approccio speculare: l’uno aggressivo, arrogante e violento, l’altro remissivo e arrendevole. Sono l’uno lo specchio dell’altro, i figli dello stesso sistema che ha cercato di plasmarli secondo la propria volontà ma che reagiscono in maniera diversa e usano due linguaggi che, anche se sublimati in maniera del tutto diversa, sono frutto degli stessi input. La catarsi dei due personaggi è dunque riconducibile all’annullamento reciproco e la loro espiazione è legata all’annullamento dell’altro, e dalla presa di coscienza di ciò che li ha generati. La mitopoiesi del Fight Club non va ricercata, dunque, nel momento stesso della sua creazione e del primo combattimento tra Tyler Durden (Brad Pitt) e Tyler Durden (Edward Norton), perché cela le sue radici nella decadenza della società dei consumi e nella difficoltà di adattarsi ad essa e alle sue regole. Per questo Tyler Durden (Brad Pitt) si avvale delle stesse armi e dello stesso spirito ammaliatore della società che lo ha creato, e proprio come essa usa il suo fascino e il suo carisma per manipolare le menti vulnerabili del suo esercito. Questo film diventa perciò elegia e apologia del disagio dell’uomo moderno, intrappolato nella cornice del mondo occidentale che lo aliena, costretto a reprimersi e impossibilitato a esprimersi, incapace di sublimare le proprie pulsioni e la propria aggressività se non attraverso l’autodistruzione.