George A. Romero

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In un numero che porta nel titolo, nel suo FiloRosso, una frase “spuria” di un film di George A. Romero (la frase è in realtà presa dal remake – firmato da Tom Savini ma con la sceneggiatura dello stesso Romero – del suo esordio cinematografico, quel La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) che costituisce anche il primo capitolo della saga sugli zombi), sarebbe stato fin troppo facile parlare di Romero e dei suoi villain preferiti, gli zombi appunto. Troppo facile. E a noi di BILLY le cose facili non piacciono.

Ciò che invece ci è parso maggiormente interessante è che anche altri episodi della filmografia del genio di New York sono assimilabili all’assunto che ci guida in questo numero di fine inverno. Non paia forzato, come percorso, poiché taluni elementi narrativi del cinema di Romero sono spina dorsale di gran parte della sua poetica e politica cinematografica, laddove il regista di La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, 1973) ha sempre declinato in maniera profondamente e consapevolmente politica il proprio mestiere.

Proprio La città verrà distrutta all’alba, che – lo ricordiamo – si colloca cinque anni prima del secondo capitolo della saga – ossia Zombi (Dawn of the Dead, 1978) – ne è un esempio piuttosto esplicito. I pazzi (dal titolo originale della pellicola) che infestano, improvvisamente e folli per colpe non loro, la piccola cittadina di Evans City, in un certo senso non sono altro che un succedaneo dei “ritornati”, in questo caso trasformati da un’arma biologica in assassini senza controllo e senza motivo. Persone normali, insospettabili, mimetiche, inaspettate e imprevedibili, verso cui i “non contagiati” oppongono una resistenza che trascende – forse comprensibilmente – nella paranoia e nel caos, laddove la resistenza è solo armata, perché il potere non è intaccabile, non è ragionevole, è mostruosamente cieco e irremovibile nella sua incapacità di comprendere e reagire. Il mondo stesso è folle, e la scelta di un remake (l’omonima pellicola realizzata nel 2010 da Breck Eisner) che volutamente perde il portato politico insito nel film di Romero, privilegiando solo la dimensione horrorifica della storia, è sintomatica dei tempi in cui versiamo.

Più complesso, ma più suggestivo, è di certo il senso del lavoro successivo di Romero, quel Wampyr (Martin, 1977) che forse rappresenta per molti aspetti il capolavoro del regista americano. Film apparentemente horror, giustamente definito un “film segreto”, sicuramente meno appariscente e visivamente violento del resto della filmografia romeriana, accoglie il buio del pregiudizio in una storia spietata di presunzione e odio, di superstizione e tormento. Il mostro non esiste più in quanto tale, in Wampyr non ci sono non-uomini (o non-morti) in senso proprio o determinazioni irresistibili (come la predestinazione di un agente o causa esterni), il male è (anche) altrove, la malattia non è incurabile se non nelle convinzioni e convenzioni becere dei cosiddetti sani (le nostre, in definitiva), la mostruosità alberga nella paura vissuta dalla normalità e le differenze, le distinzioni etiche si assottigliano e la metamorfosi capovolge i sensi e e il significato. Il vampiro è tale nella sua convinzione di esserlo, e la volontà feroce, cieca, pretestuosa  dei “normali” di opporsi a questa convinzione da loro condivisa, altro non fa che confermarla e – di più – la crea, la realizza, sostituendosi al male.

Noi non siamo solo gli zombi, e non solo gli zombi sono noi.

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