La samaritana
Samaria, Corea del Sud, 2004. Kim Ki-duk (R. e Sc.)
La reazione al dolore e alla violenza è sempre condizionata da una quantità di variabili incalcolabili e imprevedibili, almeno quanto ciò che l’ha provocata. L’analisi di queste reazioni diventa quindi così personale e intima che ogni società, cultura o costume ne assimila di differenti in base alla propria storicità ed evoluzione. Film come La samaritana sembrano poterne dare una lettura universale, quasi sopra le parti e assimilabile sia alla cultura occidentale che a quella orientale più tradizionale, questo perché amplia il concetto di violenza ad uno stato che non è prettamente fisico, spostandone il baricentro verso un tipo di violenza più sottile e ipodermica, che tocca corde nascoste in profondità come il senso di colpa, la delusione e l’amarezza. Le stesse reazioni a queste violenze non assumono i contorni nitidi della rabbia e dell’aggressività, ma si esplicitano sotto forma di “punizioni” autoinflitte. Kim Ki-duk analizza la violenza che si scatena in risposta alla perdita dell’innocenza, al crollo e alla scomparsa delle certezze di una vita e alla presa di coscienza della realtà a cui i protagonisti si trovano davanti, spaesati e disarmati, cercando, più che una vendetta violenta, una sorta di cammino redentivo che li porterà a sacrificare i loro princìpi e i loro destini, violando le loro ferme convinzioni e i loro valori per non soccombere ai rimorsi e ai rimpianti. La spirale di violenza che si viene a creare non è, pertanto, la violenza gratuita che ci viene data in pasto ormai troppo spesso, perché nasconde dentro di sé la voglia di riscattare e dare un senso a ciò che è accaduto, la volontà (la speranza) di ritornare a quel punto in cui qualcosa si è rotto e cercare di ricucirne lo strappo per meritarsi il sogno della salvezza.