Il rimosso della contemporaneità

Il rimosso della contemporaneità

Qualche mese fa, proprio su BILLY, presentando il festival di documentari Meet The Docs!, scrivevo che i documentari sono importanti – oggi ancora più di ieri – perché, in un mondo che costruisce muri ad ogni bordo e su ogni lembo, i documentari sono in grado di abbattere questi muri e, con le relative macerie, di costruire ponti. Ponti che servono per realizzare prossimità, prossimità che aiutano la conoscenza, conoscenza che stimola la comprensione e allenta le paure (il che, sia chiaro, non significa giustificare l’altro da sé in ogni caso, ma conoscerlo e dialogarci). Usavo quindi, per raccontare il documentario contemporaneo, metafore che alludessero a una fisicità, a un luogo – o a più luoghi – a uno o a diversi spazi e a molteplici possibilità di visione.

Luogo come spazio identitario, relazionale e storico, per restare con Marc Augé, sempre che lo spazio sia quella modalità secondo la quale l’individuo, nel suo comportamento sociale, rappresenta e organizza la realtà in cui vive, e in relazione alla visione come capacità o volontà «di vedere il meno possibile per lasciarsi investire dalla luce delle cose», come dice Rocco Ronchi.

Prendendo spunto da questo – e convinto come sono che il nostro paese sia antropologicamente fascista, culturalmente razzista e funzionalmente analfabeta (e quindi impossibilitato al dialogo ma votato al trauma) – mi sono chiesto quali fossero i luoghi e quali i nuclei della narrazione del documentario contemporaneo (ma non solo: direi della produzione audiovisiva tout court) in relazione alla questione delle migrazioni, che si struttura sempre di più come LA questione della contemporaneità. Quali, quindi, mi sono ancora domandato, le immagini traumatiche (e per traumatico intendo quella qualità che è propria delle immagini vere, che non implica necessariamente la violenza) utili a risvegliare la visione, a innervare l’occhio di una possibilità altra rispetto all’esistente?

Ed ecco che mi è parso di individuare e di isolare un problema centrale della comunicazione e della narrazione politica contemporanea – laddove, quando uso il termine politico, mi riferisco alla sua etimologia: l’aggettivo greco πολιτικός, che, derivato da πόλις, città, «era il termine in uso per designare ciò che appartiene alla dimensione della vita comune 1».

Mi pare, in sintesi, che ciò che manchi, rispetto alle migrazioni, alla narrazione contemporanea e alle visioni delle migrazioni, sia proprio il contemporaneo, il prossimo, il coevo. Se siamo stati bravissimi, per quanto inascoltati, a narrare le motivazioni, i perché, i diritti, le storie, i luoghi, gli spazi e le tragedie di chi è costretto a divenire un migrante, abbiamo poi bruscamente interrotto il racconto nel momento in cui le persone di cui abbiamo rappresentato le storie sono divenute fisicamente prossime a noi e alla nostra quotidianità, quasi non più transitanti ma permanenti, ossia quando sono giunte oramai ai margini – in un certo senso – dell’eccezionalità dell’emergenza.

Una volta che i migranti, i richiedenti asilo sono arrivati nelle nostre città, nei nostri luoghi dopo aver lasciato i (non)luoghi di accoglienza e detenzione (o mentre ancora li vivono, nell’attesa congelata di una risposta), una volta arrivati, dicevo, nella casa di fianco alla nostra, nei bar che frequentiamo, nei luoghi di lavoro che incrociamo, nei supermercati in cui facciamo la spesa e nelle strade che attraversiamo di notte, una volta che hanno cominciato ad abitare i nostri spazi, ecco che sono spariti dalle nostre visioni e dalle nostre narrazioni, come un rimosso, come una fotografia ritoccata.

Ed è quindi sparito anche il racconto di un’integrazione evidentemente alle porte del fallimento, almeno su larga scala, il racconto di un dialogo che procede a singhiozzo, che s’interrompe continuamente, di una prossimità divenuta troppo brusca per essere davvero comprensibile senza mediazioni.

Al netto dell’assenza evidente di un modello funzionante e alla luce della necessità di un nuovo patto sociale che non si è in grado o non si vuole stipulare, la narrazione contemporanea audio-visiva – e documentaria in particolare (ché dai grandi mezzi di comunicazione non è più dato aspettarsi altro che l’inseguimento dell’eccezionalità) – non è stata in grado di comprendere l’esistente né di rappresentarlo così che fosse maggiormente comprensibile. Ossia è divenuta fuori-luogo. È come se, ancora una volta e sapendo che certe lezioni (Pasolini, De Seta, Grifi…) appaiono irripetibili, l’Italia non riuscisse a riflettere su stessa, a raccontarsi in divenire o nel passato più recente, in un analfabetismo funzionale che esonda dall’audio-visivo e si fa sociale e politico, o – viceversa – di quest’ultimo è un riflesso che riverbera sulla narrazione per immagini e suoni.

Occorre, io credo, avere il coraggio della contemporaneità (che si può avere solo conoscendo il passato) per poterla finalmente narrare, liberandoci inoltre – in termini tanto formali quanto contenutistici – della cosmesi visiva che, anche nei pochi episodi di narrazioni documentarie intrise di contemporaneo, attualmente impedisce la comprensione. Perché tale cosmesi, come un cerone su un volto, confonde i tratti e appiattisce i dettagli, coprendo il trauma, mentre – come insegna sempre Rocco Ronchi – «solo attraverso il trauma passa il reale». Un trauma non letterale e non declinato in termini di immagini scioccanti, quanto piuttosto in termini di immagini vere che, come tali, possiedono quella luce accecante che interrompe la visione e crea il pensiero.

Immagini al cui centro, però, dev’essere una contemporaneità che non sia necessariamente attualità – anzi spesso e inevitabilmente è del tutto inattuale – e che raccolga storie assenti dalla trasmissione di altri emittenti, storie che non abbiamo avuto la forza di vedere pur guardandole ogni giorno, non capendo che solo provando a raccontarle avremmo avuto la possibilità di comprendere.

Temo che solo in questi termini, solo in questo tipo di spazialità umana, in questa geografia emotiva, il documentario contemporaneo – un certo documentario contemporaneo, una certa narrazione audio-visiva – possa tornare a rappresentare una possibilità, possa ritrovare un senso altrimenti smarrito, possa farsi di nuovo ponte, anche – e forse soprattutto – in termini politici.

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