La figlia oscura – l’esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal
Ogni bambino ha vissuto avventure con i propri giocattoli che non avrebbe saputo condividere con nessun altro. Non avrebbe voluto. A cinque anni i giocattoli sono amici, confessori, complici, alleati. Ma che valore può avere un giocattolo per un genitore? I genitori non si preoccupano di cosa passi per la mente di una bambola, non conferiscono ai pupazzi parola o ingegno, non si lasciano travolgere da loro potenziale immaginifico. Eppure per Leda, la bambola che le figlie hanno stretto tra le braccia è stata un prezioso testimone della sua maternità: testimone d’amore, di insaziabili sensi di colpa, di voraci abbracci sul pavimento tra lei e quelle bambine che le sembrava volessero vestirsi della sua stessa pelle. Fino a quando la bambola, portandosi appresso la sua maternità, è caduta, precipitata, ridotta in pezzi, in frammenti che non vale la pena provare ad aggiustare. Perché essere cattivi genitori significa essere cattive persone, giusto?
Questo è ciò di cui si è convinta Leda (Olivia Colman), la professoressa di letteratura italiana protagonista de La figlia oscura esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal nell’adattamento dell’omonimo romanzo di Elena Ferrante, sopraffatta dalle ombre del passato nel bel mezzo di una vacanza solitaria su un’isola greca. Leda viene turbata dall’incontro con la giovane madre Nina (Dakota Johnson) e la sua bambina Elena. La crepa nei sui ricordi si allarga fino a inghiottirla. Il calore del sole, le carezze del vento, i sorrisi del bagnino, i convenevoli scambiati con i vicini d’ombrellone, tutto si trasforma in una perversa invadenza psicologica. I cattivi pensieri si fanno largo tra gli istinti materni frantumati e Leda si lascia consumare dall’idea che l’essersi perdonata sia l’origine di una nuova e più profonda colpa, la prova della sua deforme capacità di amare.
Il film di Gyllenhaal, che è valso a lei una nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura e ad Olivia Colman e Jessie Buckley quelle come miglior attrice e attrice non protagonista, è un drama torbido e affascinante, dove l’intrusione del giudizio altrui serpeggia tra i personaggi, come una fastidiosa interferenza che si finisce per accettare come unico metro di valutazione per le proprie azioni.
In questo e nelle atmosfere insidiose in cui la spiaggia diviene luogo di profondissimo dissidio psicologico, La figlia oscura ed il suo taglio autoriale europeo danno corpo all’immorale convivenza di egoismo e genitorialità, degenerazione e felicità, perdono e miseria.
Sorretto da una sceneggiatura eccezionale, premiata a Venezia 2021, l’operazione di Gyllenhaal è di assoluto valore: la regia non esaspera il didascalismo della scrittrice, la camera resta spesso a distanza, non stringe quasi mai l’inquadratura, se non per premere sui corpi che nei ricordi del passato di Leda opprimono, costringono, invadono spazi psicologici insofferenti.
Corpi che hanno schiacciato Leda, condizionando le sue scelte, da sempre, quasi lei fosse per sua natura predestinata a subirne la pressione. Il sonetto di Yeats – Leda and the Swan – da cui la protagonista prende il nome e che viene recitato sensualmente dal suo amante in lingua italiana, è l’emblema della potenza sessuale dell’inganno, della perenne tensione tra amore e violenza. Nel mito la trasformazione in cigno è l’inganno con il quale Zeus riesce ad ottenere ciò che vuole, la seduzione della regina Leda. La natura della protagonista così viene simbolicamente evocata come preda dell’inganno, stregata dal mascheramento, vinta dall’inarrestabile forza riproduttiva maschile.
In una società in cui sulle spalle della donna-madre grava il tormento di un’immagine di santificata maternità votata all’amore incondizionato e al naturale istinto di sacrificio per i propri figli, questo nome è per la protagonista, che lascia le figlie per seguire ambizioni e passione, un sordido gioco del destino.
L’esordio alla regia di Gyllenhall è un enigma emotivo che rinuncia al tentativo di ricucire gli strappi, si astiene dal rincorrere risposte, scegliendo di comporre, in maniera volutamente disunita (e perfettamente riuscita), il ritratto di una madre, donna ambiziosa e incostante, che piange per consolarsi e non più per districarsi dalle colpe, che ruba una bambola per gioco e non più per sgretolare le sue catene.