Elvis – la divinità di Baz Luhrmann
Regia 4
Soggetto e sceneggiatura 3
Fotografia 4
Cast 4
Colonna sonora 4

L’Elvis di Baz Luhrmann non è sincero né preciso. Non si attiene ad una costrittiva linea temporale né si sottomette ai canoni di un mansueto biopic. Elvis non si addomestica, non si conforma, non si incatena. Soprattutto se a costruire il suo palcoscenico è lo sfrenato, stordente, barocco, iper post moderno regista australiano. Un film ..

Summary 3.8 bello

Elvis – la divinità di Baz Luhrmann

L’Elvis di Baz Luhrmann non è sincero né preciso. Non si attiene ad una costrittiva linea temporale né si sottomette ai canoni di un mansueto biopic. Elvis non si addomestica, non si conforma, non si incatena. Soprattutto se a costruire il suo palcoscenico è lo sfrenato, stordente, barocco, iper post moderno regista australiano.

Un film titanico – 160 minuti di durata e un montaggio da vertigini – che si dimena quasi interamente su di un palcoscenico. È lì che il cinema di Baz Luhrmann trova il suo locus amoenus spirituale: fragili assi di legno, riflettori accecanti, sfarzo barocco e aroma sottilmente decadente.

L’intrattenitore Presley (Austin Butler nei panni di Elvis è un’autentica rivelazione) in abito rosa che non smette di ancheggiare è puro rock, e Baz Luhrmann gli getta la cinepresa addosso in adorazione di quell’incarnazione febbricitante di energia creativa che lui stesso sta plasmando. E in questo rito cinematografico del corteggiamento tra il dio autore e la leggenda del rock protagonista si inserisce il nostro sguardo. Uno sguardo terzo, estraneo, adorante e bramoso, sedotto e eccitato. Lo sguardo di chi ne chiede ancora, lo sguardo dell’avido consumo, lo sguardo del marketing. E ad impacchettare il prodotto per noi c’è il colonnello Tom Parker (un Tom Hanks perfetta caricatura di un diabolico burattinaio di carnivals americani), lo storico manager di Re Presley.

L’Elvis di Luhrmann è un eccesso di luci, vertigini, erotismo e ritmo, eppure manca quasi tutto. La moglie Priscilla e la figlia Lisa restano sullo sfondo, la formazione musicale è ridotta a un velocissimo flashback, il talento di Presley quasi non viene considerato. Elvis non è raccontato per l’uomo che è stato, né per il mito che è ancora oggi, ma per l’effetto che fa.

La prima volta che vediamo il colonello Tom Parker sotto al palco del giovane Elvis, il goloso mangiafuoco è intento ad osservare con le reazioni delle ragazze in mezzo al pubblico, il modo in cui reagiscono ai suoi movimenti – un misto di irrefrenabile eccitazione, pudore e senso di colpa. Ed è proprio questo ad accenderne la fame, il pensiero di ciò che avrebbe potuto avere alimentando quel desiderio, ammanettando il talento, dando un prezzo all’effetto che quel sovversivo ancheggiare provocava.

Solo la Storia ha un certo peso. La guerra, l’omicidio Kennedy, il colpo di fucile alla testa del pastore Martin Luther King, l’eccidio di Cielo Drive. Ma solo perché essa non smette di inter-ferire il talento di Presley, plasmando la sua paranoia, danneggiando la sua salute, fortificando le manie di controllo esercitate dal colonello. Ma è il palco a inghiottirlo, tracannando la sua, e la nostra, passione. È il palco a divorare il film, a generare questo violento slancio sinestetico tra il rock esibito e l’erotica palette cromatica percepita.

E così anche quando il palcoscenico diviene prigione all’Intercontinental di Las Vegas, dove Elvis si esibirà contro la sua volontà per oltre cinque anni, incatenato dai ricatti economici, dall’abuso di droghe e dalla manipolazione psicologica di Parker, i riflettori sono pronti a rivelare altro, infiammando l’esito conclusivo di una personale lotta contro il Diavolo: il lucente biopic si tramuta in incubo gotico, mentre il destino del Re del rock’n’roll va a compiersi.

Ma Elvis non è sogno e declino: è titanica sfrenata estasi e, si capisce, Baz Luhrmann non avrebbe voluto contenerlo in “soli” 160 minuti.

Il regista australiano torna al cinema nove anni dopo Il grande Gatsby con l’ambiziosa missione di raccontare l’ascesa di Elvis Re Presley da Memphis al Mondo a colpi di rock ancheggiante, un personaggio assai affine al suo stile cinematografico e alle sue incontenibili fantasie artistiche: appassionato, suadente, teatrale e malinconico, Elvis e la sua musica sono l’argilla perfetta da plasmare per l’eleganza kitsch dell’autore di Moulin Rouge.

All’impronta “black” tra gospel e blues scalfita nell’anima del giovane Elvis segue l’opulenta teatralità degli sfarzi del successo, per poi infrangersi, tutto sommato con meno trita retorica di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, sullo scoglio sul quale il Re del rock si lascia prosciugare al sole della solitudine.   

Per narrare l’immortalità del rocker che ha liberato il corpo in un’America che stravede per le catene servivano lo sfarzo e l’abbondanza di Luhrmann. Proprio come Romeo e Giulietta, come Satine e Christian e come Jay Gatsby, anche Elvis è prima di tutto un uomo alla perenne ricerca dell’amore, un uomo in fuga da quando è nato. E la regia luhrmanniana ne mette a fuoco la maschera (il trucco, gli abiti sgargianti) senza mai nascondere quel che c’è dietro.

Ricordi frammentati in versione fumetto, yoyo temporale, insegne al neon, split screen e inquadrature sottosopra: un multiforme patchwork di animalesco erotico rock e di cupa tragedia greca per sguinzagliare la ribellione sociale (e sensuale) di un ragazzo bianco che canta come e con i neri negli Usa degli anni Cinquanta.

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